…fu l’evento cinematografico del 1999. Costato poche migliaia di dollari, il film ne incassò centinaia di milioni.
Da appassionato di cinema horror dichiaro apertamente che si tratta, molto semplicemente, di un film inesistente (per chi non l’ha visto il filone è quello del più recente Paranormal Activity, un horror mockumentary).
Ma è un interessantissimo esempio di marketing cinematografico e di intelligente utilizzo della narrazione crossmediale. Il lancio del film venne preceduto da quello di un sito internet, in cui veniva riportata, come vera, la storia dei protagonisti del film, giovani filmakers, scomparsi nel bosco della strega di Blair, dove s’erano inoltrati proprio per girare un documentario sulla stessa.
Il film per il grande schermo veniva quindi presentato come il montaggio del materiale girato dai ragazzi e ritrovato, insieme alla macchina da presa, dalla polizia. A sostegno di questa versione dei fatti, sul sito erano presenti vari video in cui la polizia mostrava le telecamere e le pellicole ritrovate, interviste ai genitori e amici dei ragazzi scomparsi, oltre a foto degli stessi, ripresi durante la loro attività di filmakers. Questa fama di film-verità, costruita con uno scaltro utilizzo della rete (possibile anche grazie al fatto che nei primi anni di diffusione di massa della rete i navigatori non erano ancora avvezzi a scovare gli innumerevoli fake diffusi in rete), fu fondamentale per le trionfali sorti della pellicola.
In questo caso quindi, la storia inizia sul web e prosegue sul grande schermo (narrazione primaria).
L’esempio di Blair Witch Project mi permette di fare un primo accenno ad un argomento sul quale tornerò successivamente in maniera più approfondita: nella narrazione crossmediale, spesso, i confini tra espansione dell’universo finzionale e materiale promozionale sul franchise, sfumano. Così, in questo caso, il sito web era sia un segmento dell’universo diegetico di BHW, sia un’efficacissima campagna promozionale per il film che sarebbe uscito di li a poco…
Cor.P
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