Indie Transmedia: The Cosmonaut (1)


Come ho già avuto modo di dire l’espansione del flusso narrativo su più piattaforme mediali non necessariamente pressupone la disponibilità di budget elevatissimi. Se prodotti costosamente mainstream come Matrix, Lost, Avatar sono frequentemente citati nei transmedia studies, The Blair Witch Project, prodotto indie per eccellenza, è altrettanto spesso menzionato come caso di studio seminale…e come non citare nuovamente Lance Weiler, che ha costruito gran parte della sua fama e carriera da transmedia guru grazie a produzioni lontane dai circuiti mainstream (The Last Broadcast, Head Trauma, Pandemic 1.0).

Su queste stesse traiettorie si muove The Cosmonaut, franchise transmediale spagnolo ideato e realizzato dal collettivo indipendente Riot Cinema, il cui lancio mondiale avverrà attraverso un’intensa serie di eventi – la Cosmonaut Week – dal 13 al 18 maggio.
Circa la metà del budget complessivo (860.000 dollari) è stata raccolta attraverso la piattaforma di crowdfunding spagnola Lanzanos, grazie alle donazioni libere (soglia minima 2 euro) di 4.500 persone.

The Cosmonaut, prodotto che definirei entusiasticamente indipendente è ambientato a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e la prima metà degli anni Settanta, quando la sfida tra le due superpotenze – Usa e Urss – trovò nella corsa allo spazio e alla conquista della luna un ulteriore ambito in cui dimostrare la propria supremazia. La storia inizia nel 1967: Stas e Andrei, giovani amici, arrivano al centro di addestramento per cosmonauti russi Zvezdny Gorodok, più comunemente noto come Star City. Vivranno in prima persona gli intrighi, le lotte di potere, gli abusi, i successi ed i tragici fallimenti russi nella corsa allo spazio.  E conosceranno Yulia, giovane ingegnere delle telecomunicazioni, con cui intesseranno un profondo rapporto di amicizia…

Molta parte della storia trae ispirazione dal mito dei Lost Cosmonauts, martiri russi della corsa allo spazio, astronauti scomparsi nel nulla, nei primi fallimentari lanci orbitali del colosso comunista, rimasti segreti proprio per questo loro tragico epilogo. In sintesi i sostenitori dell’esistenza dei cosmonauti perduti ritengono che Yuri Gagarin non sia stato il primo uomo a raggiungere lo spazio, ma il primo a tornarne vivo. Nella realtà non esistono prove incontrovertibili sull’esistenza di cosmonauti sacrificati alla causa comunista, ma buona parte del fascino del franchise deriva proprio dalla capacità di calare tematiche e scenari tipicamente Sci-Fi in un contesto storico – quello degli anni della guerra fredda – ancora radicato nella memoria collettiva.

Intorno al nucleo centrale, rappresentato da un lungometraggio, il franchise raccoglie svariati contenuti transmediali, tra i quali 35 webisodes lunghi dai 2 ai 15 minuti, due documentari (The Hummingbirs e Fighting Of) e due volumi cartacei (The Voyage of the Cosmonaut e Poetic for the Cosmonaut).

I webisodes – realizzati utilizzando parte del girato rimasto fuori dal lungometraggio, o filmati ad hoc – approfondiscono aspetti che rimangono oscuri nel corso del film. Il più significativo è probabilmente The Moon Files, che svela cosa accade a Stas quando, subito dopo l’allunaggio, perde temporaneamente il contatto radio con la terra.

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Hummingbird è invece un mockumentary: tre filmakers seguono la troupe di The Cosmonaut in Russia per girare il making of del film. Vengono contattati da Anna, che si presenta come la figlia di uno dei cosmonauti dispersi; decidono di indagare, andando alla ricerca di prove dell’esistenza di questa pagina oscura e segreta nella storia dell’agenzia spaziale russa, visitandone i luoghi e raccogliendo testimonianze.

The voyage of the cosmonaut è un libro da collezione, una sorta di album di ricordi dei tre protagonisti del film: foto, appunti, annotazioni private intrecciate con gli eventi storici che fanno da sfondo alle vicende di Andrei, Stas e Yulia. Come detto il franchise comprende anche un altro libro, Poetics for Cosmonaut, sorta di poema visionario sull’epopea spaziale, ed un secondo documentario Fighting of, su cui tornerò più avanti…

La scelta di realizzare un racconto che si sviluppa lungo traiettorie transmediali deriva dalla convinzione dei tre autori – Nicolas Alcala, Carola rodriguez e Bruno Teixidor – che il cinema abbia un suo punto di fascino insuperabile nella fruizione in sala, ma debba adeguarsi a tempi in cui la fruzione mediale espansa è ormai la regola. Il cinema deve farsi esperienza, ancor più di quanto non lo sia sin dalle sue origini:

Cinema seems trapped in films which last 90 to 120 minutes for reasons now obsolete (film cans, advertising pauses…).

The Cosmonaut è un franchise transmediale che trovo interessante per molteplici ragioni…le modalità di finanziamento, il modello distributivo, la capacità di creare e gestire una community estremamente partecipe, l’entusiasmo e la freschezza trasmesse dai suoi tre ideatori, il loro essersi consapevolmente proposti (mossa assai intelligente) come caso di studio…e la grande, sinergica, coerenza con cui tutti questi elementi sono stati declinati. Tutti aspetti su cui tornerò nella seconda parte del post.

Per ora aggiungo solo che, come brevemente detto sopra, il lancio del film avverrà in una serrata settimana di eventi, la Cosmonaut Week: la premiere di Madrid (14 maggio) sarà seguita da conferenze, think tank e proiezioni in diverse città del mondo, richieste ed organizzate grazie al supporto dei fan (in Italia il film verrà proiettato a Bologna nella sala Kinodromo). La settimana si concluderà con la proiezione evento a Barcellona (18 maggio). Da quel momento (fra sei giorni…) il film sarà disponibile gratuitamente in rete.

A presto.

Cor.P

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Transmedia for Social (2): Sandy Storyline


L’edizione 2013 del Tribeca Film Festival ha per la prima volta dedicato una sezione del concorso ai progetti transmediali. Il Bombay Sapphire Award è andato a Sandy Storyline, documentario partecipativo in cui le vittime dell’uragano Sandy hanno potuto (e tuttora possono) raccontare la loro esperienza attraverso foto, registrando testimonianze audio, o facendosi video intervistare.

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Laura Gottesdiener e Rachel Falcone, membri del team di Sandy Storyline, definiscono il documentario partecipativo come un documentario che

welcomes everyone to contribute content—written stories, photos, audio recordings and videos—to the growing documentary. Rather than having the narrative determined by a small team of professionals, we are creating a platform for hundreds of community-generated storylines to live and interact.

Il cuore del progetto è quindi il racconto condiviso dei cittadini colpiti dall’uragano, la cui partecipazione è incentivitata ed agevolata dall’estrema semplicità con cui si può contribuire al racconto collettivo. Ad esempio le testimonianze audio possono essere registrate chiamando un numero telefonico dedicato, senza che sia quindi necessaria alcuna particolare competenza multimediale. Le foto, i testi, gli audio ed i video raccolti sono resi disponibili online anche grazie alla piattaforma sociale Cowbird, specializzata nelle micronarrazioni in prima persona, a public library of human experience.

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Il progetto prevede anche eventi dal vivo, testimonianze presso le scuole e mostre (una delle quali si è svolta proprio nei giorni del TFF).

L’obiettivo di Sandy Storyline è più ambizioso del già meritevole sollievo che le vittime dell’uragano provano raccontando e condividendo le dolorose giornate dell’ottobre scorso. Sandy Storyline mira soprattutto alla costruzione di una comunità in grado mantenere viva l’attenzione sui cittadini e le aree colpite dall’uragano e di far sentire la propria voce nella fase della ricostruzione:

We began this documentary, therefore, to help construct a narrative about the storm that focuses on and prioritizes the needs and desires of the current community. We hope this project will help contribute to a reconstruction process that is democratic and inclusive and that helps address entrenched problems, including economic inequality and climate change. […] Keeping Hurricane Sandy in the global consciousness is important, therefore, both to ensure that people across the devastated communities receive the long-term support that they need, and to continue the movement for environmental change that will prevent future disasters. […] We hope that the storytelling is not only cathartic but empowering for people affected by the storm—and we’re honored when the experience has spurred people to take action and become leaders of their communities.

Anche in questo caso, come per Land of Opportunity, la narrazione distribuita su più piattaforme ha lo scopo di mettere i cittadini nelle condizioni di contribuire con la propria storia nel modo ed attraverso il canale con il quale viene loro più naturale farlo, abbattendo quanto più possibile le barriere tecnologiche o caratteriali che disincentivino al raccontarsi in prima persona e radicando fortemente il progetto nel territorio. Per inciso, nell’intervista rilasciata in occasione del Tribeca Film Festival, Laura Gottesdiener e Rachel Falcone danno una loro definizione di Transmedia:

Transmedia, to us, is an emerging genre of storytelling—one that interacts on various platforms and has both digital and human elements. Mostly, we’ve found that transmedia is hard to define in words. So instead we’re building an example of what it can be through this project.

Al di là delle questioni definitorie, in questo caso irrilevanti, l’augurio è che Sandy Storyline riesca davvero a dare un contributo significativo ad una ricostruzione guidata da una visione condivisa del futuro.

A presto.

Cor.P

Defiance: play the game and/or watch the show? (2)


Il versante televisivo di Defiance è sviluppato in una serie che, per la prima stagione, conta dodici episodi. Non mi soffermo sul plot, che è quello descritto nella prima parte per il franchise nel suo complesso. In uno scenario post apocalittico (che deve molto a Mad Max), ricco di suggestioni western (che nel videogioco, in gran parte, si perdono) l’elemento di maggiore interesse della serie è la rappresentazione degli alieni (anche) come profughi in fuga da un sistema solare prossimo alla distruzione: cercano qui un futuro migliore, e questo li accomuna a molti migranti. Quelle che arrivano sul nostro pianeta sono, inoltre, razze aliene divise da millenni di lotte e pregiudizi: la convivenza pacifica è un obiettivo difficile non solo con gli umani, ma tra gli alieni stessi. Mia Kirschner, che nella serie interpreta Kenya, descrive (1) la serie come una

immigrant tale… a story, for me, about what happens when these cultures, who have never intersected, come together in one place and how they get along. What I like about the show is the element of realism and the culture clashes that happen, the sad violence that comes along with it, the stories that and the beautiful reconciliation that comes along with it.

Anche il produttore esecutivo Kevin Murphy mette in evidenza questi aspetti:

What’s sort of unusual about this is that it is not simply an alien invasion show. This is really more of a melting pot immigrant drama in that these aliens, the Votans, seven different races, don’t necessarily like one another. Back on their home world they may have been enemies; one race may have conquered the other. They came together out of necessity because their own solar system was about to be destroyed, and it was, “Come together or die.” So we are in a world where old millennia-long prejudices exist within the Votans. Humans are now in the mix. And everyone’s got shared history, shared alliances, shared cultures. And it’s really about, “How do you get together in a new world with all of these different perspectives and musical and cultural perspectives?” So that’s very different from an alien invasion show.”

Tematiche di questo tipo in un contesto Sci-fi, in realtà, non costituiscono una novità assoluta. Cito, tra gli ultimi, il lungometraggio District 9 (2006) ambientato nel Sudafrica del 1982: un’enorme nave spaziale aliena si staglia nei cieli di Johannesburg, dove rimane immobile per settimane, senza dare segni di vita. Il governo sudafricano decide di far ispezionare l’astronave, all’interno della quale viene rinvenuta una colonia di extraterrestri artropodi allo sbando, sporchi, stremati e denutriti. Condotti in salvo sulla terraferma, diventano presto invisi alla popolazione locale e vengono isolati in un campo profughi chiamato “Distretto 9”, dove rimarranno confinati in regime di apartheid per i successivi vent’anni…

L’alieno come metafora del diverso, del marginale è presente anche negli ancora antecedenti Alien Nation (1988),  film successivamente trasposto in una serie televisiva, e in Fratello di un altro pianeta (1984).

Alien Nation

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Quelli della migrazione e dell’integrazione (o disintegrazione) razziale rimangono comunque versanti non assiduamenti frequentati dalla fantascienza, che aprono notevoli possibilità in termini di approfondimento dei personaggi, dei loro sentimenti e delle loro relazioni, aspetti su cui la serie potrà ovviamente soffermarsi molto di più del videogioco, focalizzato invece sulla componente action.

Defiance, nel suo insieme, è un progetto estremamente ambizioso, con un investimento complessivo superiore ai 100 milioni di dollari, distribuiti lungo 5 anni di lavorazione.
Come visto nella prima parte, la campagna di lancio  stata fortemente centrata sugli elementi transmediali del franchise, che possono risultare di particolare appeal per gli addetti ai lavori, ma è meno probabile lo siano per il pubblico, per il quale rimane decisiva la qualità della storia e del modo in cui viene narrata, al di là del numero, tipo e livello di interconnessione delle piattaforme mediali utilizzate per raccontarla.
In questo senso l’esempio di The Blair Witch Project (1998) rimane seminale. Per il film di Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez, l’utilizzo del web, che ha preceduto l’esordio sul grande schermo, è stato fondamentale per generare quell’effetto realtà risultato decisivo per il successo mondiale della pellicola, presentata come la fedele riproposizione del girato ritrovato nel cofano della macchina dei filmaker scomparsi nei boschi di Blair, dove si erano inoltrati proprio per verificare una volta per tutte, filmandola, l’effettiva esistenza della strega narrata dalle leggende locali. Logica analoga è quella con cui viene utilizzata la rete prima del lancio di Cloverfield (2008): vengono creati diversi siti web di istituzioni finzionali (Tagruato Corporation, Slusho!), in qualche modo legate alle vicende che portano al risveglio della creatura mostruosa che seminerà distruzione a Manhattan nel corso del film; una serie di profili myspace di ragazzi (ad esempio quello di Rob Hawkins) che si riveleranno essere i protagonisti della pellicola; una serie di breaking news multilingue diffuse tramite youtube che danno notizia dell’attacco alla piattaforma petrolifera Chuai Station a partire dal quale il mostro marino viene risvegliato.
In entrambi i casi la dorsale narrativa principale è un film per il grande schermo, e l’espansione diegetica transmediale sul web non è contenuto, ma strumento della campagna di lancio virale del franchise. In altri termini in The Blair Witch Project ed in Cloverfield il transmedia è mezzo di promozione, mentre in Defiance ne è oggetto, circostanza effettivamente innnovativa, ma che lascia piuttosto perplessi…è questo l’unico elemento di attrazione di un progetto che, considerato il budget ed i tempi di produzione, dovrebbe avere ben più numerose frecce al proprio arco?
Del resto, trascorsi pochi giorni dal lancio del videogame, ed a poche ore dalla prima televisiva, Defiance sembra particolarmente interessante proprio dal punto di vista produttivo, perchè per la prima volta lo sviluppo della parte videoludica e di quella televisiva sono avvenuti, ab origine, in parallelo. Questo ha comportato reciproche influenze, reciproci stimoli e reciproche limitazioni. Del ruolo vitale del mythology coordinator, che ha curato il contatto e l’interscambio giornaliero tra i due gruppi di sviluppo, per garantire la creazione di un universo condiviso totalmente coerente, ho già parlato nella prima parte. Quanto alle reciproche limitazioni, ai compromessi, mi limito all’esempio che gli stessi produttori esecutivi riportano nelle numerose interviste rilascite in questi giorni.
Gli autori della serie, nel solco di quella contaminazione tra Sci-fi e western che lo show ha comunque mantenuto, intendevano dare una forte preminenza a personaggi che si muovessero a cavallo, ma questo li avrebbe resi, nel videogioco, un obiettivo troppo agevole per il nemico. Dal canto loro gli sviluppatori dell’MMO ritenevano che nell’universo di  Defiance quella del volo dovesse essere una capacità tanto degli alieni, quanto degli umani, supportati da tecnologie adeguate. Ma dal lato tvshow, questo volare per tutti avrebbe comportato un sensibile incremento dei costi di produzione, soprattutto per gli ulteriori effetti speciali che si sarebbero resi necessari. Circostanze come questa hanno reso molto stimolante, ma non sempre agevole, il rapporto tra i due comparti produttivi, come descrive bene un recente articolo dell’AdWeek:

In the end, some of the negotiations over the complexity in the game versus the effects in the show were handled as a hostage exchange: You give us jetpacks, we’ll give you horses and nobody gets hurt. “They really didn’t want to do horses in our world,” sighs Mark Stern, president of programming for Syfy—the critters present too big a target for this kind of game”. “So the agreement was, ‘OK, as long as you agree to no flying, we’ll agree to no horses.’ “[…] “We wanted flying vehicles, and Mark and his crew were like, ‘Screw flying, it’ll blow up our CG budget,’ grumbles Beliaeff. “So we ended up creating this whole mythology where the Ark ships blew up and that created this low-flying asteroid field that made flying in the world impossible.”

Altro aspetto specificamente legato al lavoro congiunto tra due industrie complementari ma così fondamentalmente diverse è stato per esempio lo sviluppare e fissare sin dalle prime battute il design delle scenografie, dei costumi, delle armi, dei veicoli, fase di lavorazione vitale per il videogame che quindi, per questi aspetti, ha dato molto alla serie televisiva, per la quale questi elementi sarebbero stati sviluppati in una fase successiva a quella della stesura dello  script.

In conclusione vale la pena ritornare sull’ultima parte dello slogan di lancio del franchise: ‘Play the game, Watch the Show, Change the world’. Questo ‘cambia il mondo’, strizza l’occhio ad un pubblico cui sembra riconoscersi il potere di intervenire sulle sorti dei personaggi di Defiance e sull’universo in cui si muovono. Questo è sicuramente vero nel videogioco, ma lo è meno nell’insieme del franchise, per il quale, a detta degli autori, l’influenza generatrice dei gamers si avrà soprattutto prima del lancio della seconda stagione. Del resto le tecniche transmediali utilizzate sono piuttosto tradizionali e prudenti, volte a conservare la fruibilità indipendente di prodotti di intrattenimento fortemente integrati, ma più dal punto di vista produttivo che da quello diegetico. In altri termini, il prodotto non è più transmediale di altri che questa caratteristica l’hanno comunicata molto meno. La forte innovazione non è nel modo in cui il racconto è transmediato, ma nel peculiare iter produttivo, nella tempistica di lancio del videogioco e della serie televisiva (praticamente concomitanti), e nei contenuti della campagna di comunicazione. Personalmente la memoria va a Ritorno al futuro 2 (1989) e Ritorno al futuro 3 (1990), che alla fine degli anni Ottanta fecero molto parlare di se per la strategia produttiva: era infatti la prima volta che due sequel venivano prodotti congiuntamente, per poi essere distribuiti in date differenti. Oggi vengono ricordati più per questo aspetto che per come riuscirono a completare la storia raccontata nel primo, impareggiabile, film della serie.

Defiance si rivelerà anche un grande successo di pubblico o rimarrà solo un interessante case study?

A presto
Cor.P

(1) Gli estratti citati in questo post sono ripresi da interviste rilasciate da componenti del cast o dello staff produttivo di Defiance ai seguenti siti specializzati: www.digitalspy.co.uk, www.gameinformer.com, www.dealspwn.com, www.gamespot.com,  www.dreadcentral.com,

The Hunger Games: adattamento transmediale (2)


…Come detto alla fine del post precedente (dal quale, nel frattempo, sono passati 22 giorni…chiedo venia!), per la trasposizione cinematografica di The Hunger Games si può parlare di adattamento transmediale per il rilievo dei contenuti prodotti e diffusi a latere del lungometraggio, ed in particolare per quelli distribuiti online sui principali social network e su tre siti web ufficiali che hanno accompagnato l’uscita della pellicola: capitol.pn, capitoltour.pn e capitolcouture.pn (oltre a thehungergamesmovie, sito più classicamente legato al lancio del film e non ad una espansione transmediale dell’universo finzionale di Suzanne Collins)

Al primo dei tre siti, capitol.pn, si può accedere solo registrandosi come cittadino di Panem, dinamica che dal punto di vista narrativo è coerente con l’idea di uno stato-padrone che scheda tutti i propri cittadini. È molto significativo il fatto che l’iscrizione possa avvenire solo attraverso un proprio –  preesistente – account sui social network Twitter, Facebook, Google+, evidente tentativo di agganciare e sfruttare sin da subito il potenziale aggregativo dei social media.
Il processo di registrazione non si completa senza l’inserimento di una propria foto identificativa (ovviamente si è liberi di inserire immagini che non corrispondono alla propria reale identità).  Al termine della registrazione è possibile scaricare il proprio tesserino identificativo (o D.I.P., District Identification Pass) in diversi formati (per tablet, twitter, facebook…) e, volendo, ottenerne addirittura una copia fisica tramite CafePress, sito incaricato della vendita online del merchandising ufficiale dei Giochi.  Nel badge è riportato, tra le altre informazioni, il distretto di appartenenza, il lavoro assegnato e un codice identificativo univoco.
Io – dopo essermi iscritto – sono stato assegnato al distretto 1, con la qualifica professionale di pellicciaio.

L’idea di assegnare ognuno degli iscritti ad uno specifico distretto è molto interessante. L’obiettivo è quello di stimolare i fan a non focalizzare più la loro attenzione sulle sole vicende di Katniss, ma sul mondo di Panem nel suo insieme.  In questo senso il raggruppamento in distretti aiuta a creare un senso di cittadinanza, di appartenenza, più radicato rispetto ad una più generica e libera (e quindi meno aderente al regime totalitario immaginato dalla Collins) cittadinanza dello stato di Panem. L’essere parte di un gruppo più circoscritto e specifico, spinge da un lato a prendere parte alla vita della propria comunità in maniera più attiva e assidua (attraverso la pagina facebook che ha ogni distretto), dall’altro a valicarne i confini raccogliendo, per quanto possibile, informazioni sugli altri distretti. In sintesi il tentativo del marketing della Lionsgate è stato quello di utilizzare i social network per spostare la prospettiva dei fan di The Hunger Games: da sostenitori di Katniss a cittadini di Panem.

Così, in ognuna delle 12 pagine facebook dei distretti (123456789101112) –  come spiega Ann Marie Taepke nel post in cui analizza il lancio del film in un’ottica di social media marketing – vi sono tre figure fondamentali: «[…] a district mayor, recruiter and journalist. These individuals are fans and genuine enthusiasts of The Hunger Games who participated in elections, held earlier this year on the Facebook Wall and were chosen by ‘The Capitol’ to be administrators. The mayors act as leaders for the Districts, and are responsible for celebrating its citizens and relaying communication from the Capitol on Facebook. The recruiters help spread the word through the Districts primarily on Twitter and the journalists (who are established bloggers) receive ‘tips’ from citizens and periodically write about Hunger Games news.»

Qualche numero può essere utile per comprendere quanto lo staff marketing della Lionsgate – 21 persone, guidate da Tim Palen, con un budget di 45 milioni di dollari – abbia fatto leva sui social media. La pagina facebook ufficiale ha, ad oggi, 6.734.270 fan, mentre quella di Capitol.pn ne conta 164.012. Quanto invece ai singoli distretti, si va da un minimo di 57.657 fan per il distretto 10 ad un massimo di 163.467 per il distretto 12.  In totale 7.764.247 fan su facebook, ai quali vanno aggiunti 674.709 followers su Twitter (587.504 per il profilo TheHungerGames e 86.805 per TheCapitol). Questo considerando esclusivamente alcuni dei profili ufficiali sui due principali social network…

Tornando a capitol.pn, il sito svolge in un certo senso la funzione di portale – o di Citizen information terminalper i contenuti online legati al franchise. Vi sono riportati i nomi dei mayors e dei recruiters dei singoli distretti, cliccando sui quali si viene collegati alle pagine dei loro profili Twitter;  statistiche sui distretti più attivi (in termini di discussion rate sui social network) e con più cittadini; link alle pagine facebook dei singoli distretti, a capitol.tv (il canale youtube del franchise) e capitolcouture.

Quest’ultimo, sviluppato sulla piattaforma Tumblr, è essenzialmente un magazine online dedicato a tutto ciò che fa stile a Capitol City, con interviste a personaggi del franchise, brevi fashion guide, veri stilisti che propongono la loro lettura del Capitol look o i cui capi sono consigliati ai cittadini di Panem (Jean Paul Gautier, John Galliano, Thierry Mugler, Alexander McQueen…) e concorsi (Look your best night) per vincere biglietti di ingresso a proiezioni in anteprima del film o gift card da 2.000 dollari (il District style challenge) .

Quanto invece al sito capitoltour.pn, consente di effettuare una visita virtuale, in realtà piuttosto limitata e scarsamente interattiva, di alcune aree di Capitol City: il welcome center, la control room, l’avenue of the tribute e il memorabilia center.

Anche in questo sito, come in capitolcouture, si può accedere solo dopo essersi registrati come cittadini di Panem.

Tornando ai social media, oltre alle pagine facebook dei singoli distretti ed ai profili twitter dei loro mayor, recruiter e journalist, sono stati utilizzati anche in altre operazioni, in cui la componente dell’engagement cede il passo a finalità più immediatamente promozionali. Così, ad esempio, il 15 dicembre 2011  (100 giorni prima del lancio del film), sono state sparse per 100 diversi siti altrettante tessere di un puzzle che, una volta ricomposto, avrebbe rappresentato il poster ufficiale del film. I fan avrebbero dovuto cercare le diverse tessere utilizzando l’hashtag #hungergames100 su Twitter e, una volta ricomposto il puzzle, postarlo su Facebook e taggarlo con i riferimenti della pagina facebook ufficiale del film. Il concorso non prevedeva ricompense, se non quella di vedere il proprio nome (riuscendo per primi a ricomporre il puzzle) campeggiare nella pagina facebook ufficiale del franchise, sotto il poster. TheHungerGames salì in pochi minuti tra gli hashtag più rilevanti del giorno.

In una logica di countdown, ad accrescere ulteriormente la febbre per l’uscita del film, a 24 giorni dalla prima venne lanciato un altro concorso, l’Advanced Screening Program.  I fan residenti negli Stati Uniti potevano sbloccare delle anteprime del lungometraggio (da tenersi il 21 marzo 2012, 2 giorni in anticipo rispetto alla prima ufficiale) nelle città loro più vicine fra le 24 selezionate per il concorso. Per farlo avrebbero dovuto twittare ‘#hungergames24’ seguito dalla sigla della città scelta (così, ad esempio, ‘#hungergames24DC’ per Washington, o ‘#hungergames24CHA’ per Charlotte). Ogni giorno, per i 6 giorni successivi all’inizio del concorso (avvenuto il 29 febbraio 2012), le città con più tweet avrebbero avuto la precedenza nel veder sbloccata l’anteprima, con l’apertura della vendita dei biglietti e con 24 ingressi gratuiti per due persone messi in palio tra i partecipanti.

I siti web, le pagine facebook, i profili twitter sui social network e i concorsi che hanno accompagnato i fan nei mesi e nelle settimane precedenti l’uscita del film, hanno continuato a svolgere un ruolo rilevante anche nei mesi successivi alla prima (ne sono trascorsi più di 4). Su questo mi soffermerò però nella terza e ultima parte, che spero di postare in tempi brevi…o almeno inferiori a quelli trascorsi tra la prima parte e questa seconda!

A presto

Cor.P

Alcatraz: oltre l’isola, oltre il piccolo schermo


Esordisce oggi su Premium Crime (ma le prime due puntate saranno visibili in chiaro anche sul canale 309, Premium Anteprima, del digitale terrestre), alle 21.15, la nuova serie prodotta da J.J.Abrams, Alcatraz.

La storia prende il via nel marzo 1963. Due agenti arrivano sull’isola sede del famigerato penitenziario. Ma qualcosa non torna. Le celle sono vuote. I detenuti sono scomparsi, così come le guardie carcerarie. Più di 300 uomini svaniti nel nulla. Fino ad oggi…
Rebecca Madsen, detective del San Francisco Police Department, sta indagando su un atroce caso d’omicidio. Sulla scena del crimine rinviene un’impronta appartenente a Jack Sylvane, un criminale che era rinchiuso ad Alcatraz, dato per morto da decenni. Rebecca tenta di approfondire il mistero, insieme all’agente federale Emerson Hauser e all’esperto della prigione, Diego Soto, scoprendo ben presto che Sylvane è ancora vivo, è tornato a mietere vittime, e non è invecchiato di un giorno dai tempi in cui era rinchiuso nel carcere di massima sicurezza. Ma Sylvane non è solo: altri prigionieri stanno per riapparire dal passato…

J.J Abrams con Lost, Cloverfield e Super8 ha già dimostrato, sul piccolo come sul grande schermo, di pensare i propri prodotti in termini transmediali. Alcatraz, sin dall’esordio, non fa eccezione. Il lancio della serie, avvenuto negli Stati Uniti il 16 gennaio scorso,  è stato preceduto da una campagna di virale marketing transmediale iniziata con l’invio – ad alcuni selezionati esponenti dei media e di fancommunity – di una valigetta metallica contenente un insieme di indizi che hanno fatto da teaser per la serie e da rabbit hole per un alternate reality game (Arg) alla stessa collegato.

All’interno della valigetta si trovavano infatti vari oggetti, tra i quali una brochure del tour Discover Alcatraz del 2011, un fiore bianco essiccato, 2 chiavi con sovrinciso ‘Alcatraz’, una spilla con il logo della Ford Mustang del 1963, alcune cartoline, ritagli di un quotidiano dell’epoca e di un magazine recente.
Più specificamente il primo dei due è un ritaglio del San Francisco Bay Intelligencer del 22 marzo 1963, in cui è possibile leggere un articolo intitolato ‘The Final Lockdown’, dedicato alla chiusura del carcere di massima sicurezza, di cui di seguito riporto il testo:

Thousands of America’s worst criminals were sentenced to hard time in this notorious penitentiary; many died there, others served out the full term of their respective stays, but nobody ever escaped. It was a severe locale that offered little to no promise of hope or redemption.Last night, however, all USP Alcatraz prisoners vacated the premises once and for all.
What was the government’s official reason for closing the facility? In a word: money. Estimates indicate that it was costing over ten dollars per day to house the typical inmate. Compare that to the three-dollar per capita cost at other federal institutions. The financial strain was becoming too exorbitant to bear; shutdown was inevitable.
Prison officials declined our interview requests, citing their prohibitively hectic schedules. Instead, Warden Edwin James issued the following statement to the press:
“This is an immense undertaking. We are completing the transfer paperwork on 256 inmates and working to find comparable positions for all 46 of our federal employees who will be displaced by this transition. But rest assured; our relocation initiative is taking every precaution to preserve the safety of all individuals involved, especially the civilian population at large.”
So, what will become of the ominous rock jutting from our majestic bay? City planners are remaining tight-lipped on the matter, but one thing is for sure: it is indelibly seared into the landscape of our past, our present and our future.

Il ritaglio a colori è invece la pagina 34 del magazine Commerce Quantified, che riporta la recensione del libro Inmates of Alcatraz, scritto da quel Dott.Soto che è un personaggio nella serie televisiva (per inciso interpretato da Jorge Garcia, già presente Lost nella parte di Hurley).

Ecco il testo della recensione:

With his enthralling Inmates of Alcatraz, Dr. Diego Soto goes behind the bars and unlocks the twisted lives of a population formerly lost to history.
If you want a healthy dose of murder, regret and intrigue, don’t resort to watching soap operas – head out to your local bookstore and pick up the latest entry in Soto’s already impressive oeuvre that I like to call ‘Alcatraz revisited.’  He goes beyond the usual suspects (your Capones, your Machine Gun Kellys, your Birdmen) and paints an intimate portrait of dozens of forgotten inmates, each story leaping from the page with ferocity and renewed urgency. It’s as if they’re reanimating before your very eyes!
Despite the human-centric title, the book also delves into the foreboding setting of Alcatraz Island. ‘The Rock’ has never been so jagged, menacing and craggy – every vista provides a skewed take on humanity, Soto-style. He finds a way to transform the irregular outcropping into a shiv of brilliance. It is the judge, jury and executioner in this sordid tale of amorality run akok; no matter how notable the real-life characters in this book may be, they will never overshadow the prison itself.
But don’t take my word for it – Soto’s whimsical prose speaks for itself. Here’s an excerpt from the opening chapter of Inmates:
“Everything about USP Alcatraz is larger than life; the people, the history, even the daily operations boggle the mind. For instance, the feds shipped about a million gallons of fresh water from the mainland every week. Imagine: bringing water to an island. Trip out on that.”
Trip out, indeed. Soto bites into his subject matter like a jubilant piranha, shredding all preconceptions and injecting new blood into the burgeoning subgenre of obscure historiography. He revels in every scrap of evidence, reads them like decaying tea leaves and translates the whispers of the past into thunderous declarations of the now. Suffice it to say, Inmates of Alcatraz is my Book of the Week!

Alcune lettere della recensione sono cerchiate a formare ‘LegendsofAlcatraz’. Digitando su qualsiasi motore di ricerca quelle parole, il primo risultato è il sito della Fox dedicato alla serie televisiva, che fino al 16 gennaio 2012 ha conteggiato i giorni rimanenti al lancio della stessa. Oggi su quello stesso sito vengono veicolati elementi che dimostrano come alla fase teaser stia succedendo la fase arg. Pochissimi giorni fa (il 27 gennaio)  302 fan sono stati chiamati a prendere parte ad una ‘missione’ sull’isola di Alcatraz organizzata dal dott. Soto per farsi aiutare a risolvere alcuni dei misteri dell’isola, per il suo nuovo libro Legends of Alcatraz.

Siamo solo all’inizio, e in questa espansione transmediale non sarebbe sorprendente trovare presto in vendita su Amazon il libro del Dott.Soto dedicato ai misteri di Alcatraz…
Ovviamente on line sono già sorte community dedicate ad Alcatraz e ai suoi misteri. Per i successivi sviluppi televisivi e transmediali della nuova serie di J.J.Abrams vi rimando quindi a drsotofiles, fanblog italiano che ha analizzato i primi tre episodi della serie già trasmessi negli Stati Uniti e le prime fasi dell’arg, e a welcometoalcatraz.com.

A presto

Cor.P

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