Nuno Bernardo on Transmedia Pitch


Nuno Bernardo ha pubblicato online una guida al pitching di progetti transmediali. La guida è molto agile (18 pagg.), ma ricca di esempi stimolanti, ed è scaricabile gratuitamente qui.

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Come da titolo, la guida è pensata per chi voglia presentare in maniera convincente un progetto transmediale, al fine di coinvolgere partner che lo finanzino. Convincere qualcuno a mettere i propri soldi su un progetto creativo significa prima di tutto essere pronti a rispondere ad alcune domande fondamentali sul progetto in se e sulle motivazioni della sua natura transmediale.
Del resto molte di queste domande bisogna in primis porle a se stessi, nel momento in cui si decide di imbarcarsi nella realizzazione di progetti di questo tipo. Si tratta infatti di questioni fondamentali, elementi centrali per avere da subito una direzione di marcia ben definita. Per questo motivo la guida è utile per un pitching efficace ma anche, più in generale, per avere ben chiari alcuni principi cardine nella progettazione di prodotti transmediali.

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Trovo inoltre particolarmente riuscito il paragone utilizzato da Bernardo per spiegare come la scelta di narrare transmedialmente non sia una scelta vincente ‘a prescindere’, e debba anzi esserne vagliata attentamente l’opportunità, in particolar modo quando le risorse disponibili sono scarse:

[…] I used the Mona Lisa metaphor to explain this problem […] It.s a fact that a big percentage of visitors of the Louvre go to the museum to see the famous Leonardo Da Vinci painting and only visit the corridors from the main entrance to the Mona Lisa room and back. But he Louvre has many other corridors and exhibition rooms that are not that popular: they are only seen by a small portion of the museum visitors. […] [My advice is] focus on your Mona Lisa, the core story, characters and elements of your project, and the ‘corridors’ that lead to that core element. Don’t try to set up the full Louvre with its dozens of rooms and corridors, especially if your resources are limited. Down the line, if you succed with your initial approach, you will be able to add another room or another corridor.

A presto.
Cor.P

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Vi segnalo: Barry Wellman all’Università Sapienza di Roma


Vi segnalo l’incontro con Barry Wellman che si terrà il prossimo 5 giugno 2014  a partire dalle 15, presso l’Università Sapienza di Roma, aula Oriana, Dipartimento CORIS, Via Salaria 113.

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Barry Wellman è tra i pionieri della Social Network Analysis e tra i padri fondatori degli Internet Studies. Già a partire dagli anni Settanta ipotizzava che la società non fosse organizzata in comunità coese, quanto piuttosto in network, introducendo successivamente concetti centrali per l’analisi delle relazioni sociali (anche) mediate dalle tecnologie, come la privatizzazione della sociability e il networked individualism. Attualmente dirige il NetLab presso l’Università di Toronto.

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L’originalità e il rigore delle sue ricerche hanno contribuito a sfatare utopie e distopie sulla rete fin troppo diffuse negli ultimi anni, proponendo una lettura attenta solo a ciò che le persone fanno con le tecnologie. Nel libro Networked. Il nuovo sistema operativo sociale, curato insieme a Lee Rainie ed a partire dal quale si svolgerà l’incontro, afferma infatti che sono le pratiche culturali e sociali a stabilire come le opportunità tecnologiche possano essere valorizzate e in quale direzione debbano evolversi: in questo senso i device tecnologici costituiscono solo i mezzi tramite i quali le trasformazioni del tessuto sociale possono esprimersi e incrementarsi.

Concludo citando parte dell’introduzione di Alberto Marinelli all’edizione italiana di Networked:

L’attenzione di Rainie e Wellman alle trasformazioni tecnologiche, come abbiamo visto, non è mai fine a se stessa e non assume una valenza determinante. La diffusione straordinaria dei device personali o il successo planetario di Facebook rappresentano solo dei fattori tecnologici abilitanti, che hanno sicuramente contribuito al rimodellamento dei network sociali, consentendo un decisivo incremento delle loro dimensioni e del loro grado di diversificazione, ma sono sempre le pratiche culturali e sociali a stabilire come le opportunità tecnologiche possono essere valorizzate e in quale direzione debbano evolvere. Allo stesso tempo, si può affermare che nessuna di queste tecnologie abilitanti costituisce oggi un sistema isolato o in grado di isolare le persone, come spesso si è temuto in passato, nelle prime fasi di sviluppo del personal computer e delle reti. I device tecnologici e le opportunità di comunicazione che essi incorporano sono oggi perfettamente integrati nella vita sociale, tanto da essere quasi indistinguibili nei quotidiani contesti d’uso. Della complessiva sintonia cui abbiamo fatto riferimento fa parte anche questa visione molto più serena e“normalizzata” rispetto alla possibilità delle tecnologie di incidere sulle identità personali e sulla vita sociale.
[…] Sul piano teorico, Wellman ha attraversato con il suo lavoro – e contribuito a ricostruire criticamente – il passaggio degli internet studies attraverso diverse fasi, incrociando il lavoro di ricerca condotto da Rainie. La prima fase (metà degli anni Novanta del Novecento) è caratterizzata dalle opposte estremizzazioni degli utopians, tecnoottimisti che vedevano in internet uno strumento di liberazione, e dei distopians, che temevano che le tecnologie potessero isolare gli individui, minacciando la coesione sociale e intaccando l’autenticità delle relazioni sociali, divenute virtuali. Nella seconda fase (fine anni Novanta), si registra una crescente attenzione per le tecnologie digitali da parte di mercato e istituzioni, insieme a una parallela progressiva integrazione delle stesse nella vita quotidiana delle persone comuni. In questa fase, si iniziano a svolgere sistematiche ricerche empiriche su ampia scala sull’uso di internet, documentandone la diffusione, osservando il comportamento degli utenti e l’integrazione di internet nelle loro pratiche quotidiane, con un ampio ricorso agli strumenti classici della ricerca sociale. Non è casuale che proprio nel 1999 viene avviato il Pew Internet Project diretto da Rainie, che comincia a fornire non solo agli studiosi ma anche ai politici e al mondo dell’informazione le tendenze più aggiornate sull’evoluzione del rapporto tra tecnologie e società. Nella terza età degli internet studies (che Wellman individua a partire dal 2004), la diffusione del cosiddetto “web 2.0”, da un lato, enfatizza le opportunità di utilizzo delle tecnologie in chiave relazionale e partecipativa, dall’altro, le considera, ormai compiutamente “embedded” nella vita reale, anche per effetto della crescente diffusione dei mobile personale devices. Networked si pone quasi idealmente come sintesi della straordinaria avventura di ricerca vissuta dai due autori nell’arco degli ultimi quindici anni; si sostiene sulla stretta integrazione tra ipotesi teoriche e dati empirici; propone una lettura finalmente libera da utopie e distopie, attenta solo a “ciò che le perso ne fanno con le tecnologie”. Per questo motivo non solo riesce a cogliere i tratti strutturali dell’impatto sociale di internet ma prefigura gli scenari che saremo chiamati ad abitare nei prossimi anni.

A presto.
Cor.P

 

The Hunger Games: Catching the Transmedia Fire (1)


Mi ero già occupato della trasposizione cinematografica di The Hunger Games, dopo l’uscita del primo film. Ne avevo parlato in termini di adattamento transmediale, perchè la storia raccontata al cinema era la stessa già presente nel primo libro della saga della Collins e quindi, in questi termini, si sarebbe trattato di ‘semplice’ adattamento. Ma in realtà nel passaggio dal libro al cinema, il narrare diveniva espanso. Non si passava cioè dalla narrazione monomediale del libro, ad una, altrettanto monomediale, del cinema: accanto al lungometraggio cinematografico erano stati realizzati infatti una serie di contenuti e di spazi (per la descrizione dei quali vi rimando ai tre post dedicati al primo film), soprattutto online, che hanno espanso la narrazione primaria. Per questi motivi era più completo e corretto parlare di adattamento transmediale.
E lo stesso di può dire per The Hunger Games, Catching Fire (The Hunger Games, la ragazza di fuoco), il secondo film tratto dall’universo finzionale creato da Suzanne Collins, uscito da pochi giorni.
Anche in questo caso il lancio del lungometraggio è stato preceduto da una ponderosa campagna di comunicazione transmediale, di cui vale la pena tratteggiare alcuni dei contenuti principali.
La campagna è iniziata nei primi mesi del 2013, con la cartellonistica relativa a Capitol Couture, ed al nuovo profumo Cinna,  apparsa in alcuni delle maggiori città statunitensi.

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Questo è bastato ai fan di THG per capire che iniziava il percorso di avvicinamento a Catching Fire.  Per il pubblico meno coinvolto nel franchise ma incuriosito da questi cartelloni, è invece stato sufficiente inserire nei principali motori di ricerca ‘Capitol Couture’, per ritrovarsi nell’omonimo sito ospitato dalla piattaforma tumblr. Capitol Couture esisteva già, sulla medesima piattaforma, al momento del lancio del primo lungometraggio, nel 2012. Ma era infinitamente più semplice della versione attuale, sia in termini di struttura (poco più di un blog), sia in termini di quantità, qualità e articolazione dei contenuti e loro interconnessione con l’universo di THG. Oggi Capitol Couture appare come un vero e proprio fashion magazine – scritto per i cittadini di Capitol nel quale accanto ad articoli sui victors (vincitori di edizioni precedenti degli Hunger Games, che per questo vivono in condizioni privilegiate e possono essere mentori dei tributi del loro distretto designati per le edizioni successive dei giochi)  o su eventi mondani della capitale di Panem, ci sono i tipici servizi di moda o quelli relativi al make-up, presenti nelle riviste di questo tipo.
Come avevo scritto nei post dedicati al lancio del primo film con riferimento alle pagine facebook dei dodici distretti, anche in questo caso non ci sono grandi novità in termini di avanzamento di quanto raccontato nel franchise THG, ma c’è sicuramente un ottimo, affascinante lavoro in termini di occasioni date ai fan per immergersi nel mondo di Panem, facendo loro conoscere, respirare, sperimentare, lo stile di vita dei suoi cittadini, fatto di lusso sfarzoso ed opulenza, come già sa chi ha letto i libri della Collins.

Perchè tutto questo acquisisca maggiore efficacia (che in questo contesto significa fondamentalmente maggiore capacità di coinvolgimento) i confini tra realtà è finzione vengono ripetutamente attraversati, sfumati, confusi. Capitol Couture è un fake fashion magazine…ma considerando l’articolazione, la quantità e spesso la qualità dei contenuti, in alcuni passaggi risulta interessante come fosse vero. Del resto nel magazine scrivono anche firme già note, giornalisti affermati come Monica Corcoran Harel che ha prestato la sua opera a testate come New York Times, Elle, Marie Claire o come la fashion blogger Rose Apodaca, già giornalista per Harper’s Bazaar e Elle. Nella sezione capitol look vengono dedicati articoli a fashion designers che tali sono davvero, come ad esempio la spagnola Alba Prat o l’olandese Anouk Wipprecht, o a make- up artist di fama internazionale come Mao Geping. A questi si affiancano altri designer, essi stessi esistenti, che hanno effettivamente contribuito al disegno dei costumi del film, ma che sulle pagine di Capitol Couture vengono presentati come fossero loro stessi cittadini di Capitol, come avviene ad esempio per Daniel Vi Le. L’ibridazione di realtà e finzione si ritrova anche in passaggi più sottili dei singoli articoli che però, per la loro numerosità e per la loro oculata disposizione, sono essi stessi utilissimi a rendere Capitol Couture, e ciò che vi si racconta, ‘vero’.
Così ad esempio nel pezzo si cronaca mondana sul party che il presidente Snow ha dato in onore dei Victors, la giornalista Corcoran Harel viene citata tra gli ospiti…quindi non solo scrive per Capitol Couture, ma è parte integrante di quella realtà che con i suoi articoli descrive. E nello stesso articolo, parlando degli abiti degli ospiti più prestigiosi, vengono citati numerosi veri stilisti: Thierry Mugler, Yves Saint Laurent, Alexander McQueen…

Stessa logica soggiace all’intervista al presidente Snow, che attraverso le pagine del magazine più diffuso, chiama i cittadini di Panem ad una partecipazione massiccia ai settacinquesimi Hunger Games:

I know every citizen reads Capitol Couture, so let this interview be my call to the people of Panem,” he says, standing up for a moment with his hand at his heart. “Are you preparing for the Quarter Quell? It’s part of our civic duty to participate and show your loyalty.

Ci immergiamo nel mondo di Panem, perchè leggiamo la rivista che leggono i cattadini di Capitol…

Capital Couture è interessante perchè chiarisce come l’espansione transmediale di un tessuto narrativo possa essere realizzata in maniera efficace anche non toccando direttamente, se non in maniera marginale, la storyline, perchè in estrema sintesi Capitol Couture non amplia la storia di THG ma approfondisce il mondo in cui quella stessa storia è ambientata. Inoltre  dimostra come l’engagement del pubblico, la sua immersione nell’universo finzionale, non necessariamente debba essere perseguita attraverso avveniristiche, estremamente complesse, soluzioni interattive (arg, augmented reality, location based games…), perchè l’attività che, attraverso Capitol Couture, immerge un po’ di più il fan nel mondo di Panem è, semplicemente, la lettura…Ed è quindi agevole, a complemento, comprendere come la scrittura continui a rivestire un ruolo centrale anche nella costruzione di universi finzionali così complessi, dando un contributo irrinunciabile alla solidità delle fondamenta degli stessi.

Quello di Capitol Couture è inoltre l’ennesimo esempio di come sempre più spesso, in franchise transmediali, sia praticamente impossibile distinguere il materiale promozionale sulla storia, dalla storia vera e propria…
In questo caso però esistono delle specificità sulle quali vale la pena soffermarsi, derivanti proprio dal tipo di storia che Suzanne Collins ha raccontato. Quello immaginato dall’autrice statunitense è un futuro distopico, in cui la dittatura, l’ingiustizia sociale, la segregazione, sono la regola. Un futuro in cui adolescenti sono posti l’uno contro l’altro, in survival games in cui sono chiamati ad uccidersi tra loro. Associare a un franchise che affronta questo tipo di tematiche un magazine come Capitol Couture, che celebra l’immagine ultracool, patinatissima, del mondo di Panem – raffigurandone il bello, almeno secondo i canoni estetici di Capitol City –  è un’operazione che suscita qualche interrogativo. Al di là di eventuali considerazioni etiche, va valutato con attenzione se contenuti promozionali di questo tipo siano coerenti con l’anima del prodotto a cui si riferiscono…o se non rischino invece di tradirla, inflazionando il franchise nel suo insieme.
Per alcuni l’utilizzo di personaggi (stilisti, designer, giornalisti) provenienti dal mondo reale, di marchi celebri che affollano le vetrine delle nostre vie più prestigiose, dovrebbe dimostrare quanto il mondo di Panem sia vicino alla nostra realtà quotidiana, dove, come avviene a Capitol, l’opulenza, lo sfarzo, il lusso esibito, convivono con la povertà, la deprivazione, la morte. Tra le righe di Capitol Couture ci sarebbe quindi l’intenzione di fare della critica sociale. Ad esempio secondo Christine Weitbrecht  gli articoli che vi compaiono:

are showing us how close we are already to this particular opulent lifestyle. One way of doing this is the inclusion of luxury brands and designers, that a large part of our own society lusts after, and another is the style and tone of the Capitol Couture articles, which we will all recognize from the type of magazine articles that fill our real-life magazines everyday fans (and probably everyone who’s seen the first movie) can quickly spot the way in which the Capitol and Capitol Couture gloss over anything that could be remotely critical of the status quo, even in the media listed above, and with this type of content directly juxtaposed with real-life examples of media and lifestyle, the criticism behind THG becomes all the more powerful.

Da parte mia nutro dei seri dubbi che questo tipo di critica venga recepita dal target di riferimento del franchise.  E del resto se questo fosse stato lo scopo, probabilmente i marchi che abbiamo citato, ed i molti altri che ricorrono nelle pagine di Capitol Couture, non si sarebbero resi disponibili per un’operazione di questo tipo, che avrebbe gettato discredito su di loro, in quanto associati all’idea di un regime totalitario e alla sinistra immagine del Presidente Snow. Ma, come la stessa Weitbrecht sottolinea, questo non avviene:

Interestingly, the negative image of the Capitol doesn’t seem to impact on the brands negatively. Given the social critique of modern day opulence the Capitol embodies, one would think that no brands – luxury or otherwise – would want to be associated with the Capitol, and that fans would look at the featured high-end brands as associates of the evil President Snow and Capitol society. However, judging from the comments and popularity of Capitol Couture, fans don’t seem to think that way.

A mio avviso, appunto, l’immagine negativa di Capitol non impatta altrettanto negativamente su marchi e personaggi che vengono citati nelle pagine di Capitol Couture, perchè se nel magazine esistono intenti critici nei confronti del regime totalitario di Panem, sono nascosti benissimo…

La stessa Suzanne Collins ha sottolineato – in alcune sue dichiarazioni a Variety – come la campagna di lancio del film riecheggi, in un gioco di rimandi metatestuali, le stesse strategie della propaganda degli hunger games che il regime di Panem mette in atto:

I’m thrilled with the work Tim Palen and his marketing team have done on the film. […] It’s appropriately disturbing and thought-provoking how the campaign promotes ‘Catching Fire’ while simultaneously promoting the Capitol’s punitive forms of entertainment. The stunning image of Katniss in her wedding dress that we use to sell tickets is just the kind of thing the Capitol would use to rev up its audience for the Quarter Quell (the name of the games in “Catching Fire”). That dualistic approach is very much in keeping with the books.

 Ma ciò che pone dei dubbi è proprio quella che secondo la Collins è la caratteristica della campagna di marketing di Catching Fire che più riecheggia il modo di comunicare del regime di Panem: la campagnia promuove il film e, nel farlo, promuove anche l’intrattenimento violento degli Hunger Games. Dell’afflato critico non v’è traccia, e del resto, da questo punto di vista, non mancano scivoloni. Penso ad esempio alla linea di make up della Covergirl legata al film.

Hunger_Games_CoverGirl_Capitol_Collection

Dodici diversi make up, uno per ciascuno dei distretti di Panem, dai quali per ogni edizione dei giochi due tributi, due adolescenti, sono mandati a morte quasi certa (visto che sopravviverà solo il vincitore, uno su 24 partecipanti). Associare il brand THG ad una serie di cosmetici non stona un po’ con il messaggio dei libri della Collins?
Se all’uscita del film V per Vendetta fosse stata lanciata una linea di prodotti per rendere i capelli lisci, lucidi e mori come quelli del protagonista? Sarebbe stata una gran mossa?

Alla settimana prossima per la seconda parte.

A presto.
Cor.P

Vi segnalo: Osservatorio Tv di Barbara Maio


…Eccomi di ritorno da una fortunamente lunga pausa estiva…Ben ritrovati!

Per chi di voi è ancora in ferie, ma non vuole rinunciare a stimolanti spunti di lettura intorno al mondo televisivo, segnalo l’Osservatorio Tv di Barbara Maio, progetto di ricerca indipendente che ha recentemente pubblicato un ebook gratuito dedicato all’analisi delle serie tv realizzate negli ultimi 2/3 anni. Un focus specifico (ma non esclusivo) è dedicato a quelle fiction che non hanno ancora ottenuto un’adeguata attenzione accademica, a volte perchè in onda da una sola stagione, altre volte perchè cancellate dopo pochi episodi, ma comunque meritevoli di attenzione per originalità autoriale o per le dinamiche di cult che sono state in grado di innestare.
Il volume è piuttosto importante (sfiora le 400 pagine), ma i singoli pezzi non vanno oltre le 15 cartelle, e sono quindi ideali per una lettura che sia vacanziera, ma non da encefalogramma piatto.

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Molti degli autori dei saggi sono coinvolti attivamente nel mondo della ricerca accademica, o in quello del giornalismo e/o della critica cinematografico/televisiva.

Di seguito l’indice del volume:

Presentazione di Barbara Maio
Osservando l’Osservatorio Tv di David Lavery
Alcatraz di Miriam Visalli
Alphas di Oriele Orlando
American Horror Story di Barbara Nazzari
Awake di Alberto Brodesco
Awkward di Kelly Andrade
Boris di Cristiano Dalpozzo
Breaking Bad di Gabriele De Luca
Community di Alice Cucchetti
Downton Abbey di Alice Casarini
Dr.Horrible di Biancalisa Nannini
Flashforward di Anna Viola Sborgi
Fringe di Stefania Cava
Games of Thrones di Kelly Andrade
Gossip Girl di Tito Vagni
Girls di Giulia Quintabà
Happy Town di Barbara Maio
Homeland di Sara Martin
House of Cards di Attilio Palmieri
Last Resort di Barbara Nazzari
Louie di Chiara Checcaglini
Mad Men di Ilaria Feole
Mildred Pierce di Elisa Rampone
Swingtown di Giada Da Ros
The Good Wife di Ellen Nerenberg
The Newsroom di Giada Da Ros
The Walking Dead di Luca Pasquale
Wallander di Emanuele Rauco

Buona lettura!
Cor.P

Vi segnalo: Cult Tv di Barbara Maio


…con colpevole ritardo vi segnalo il volume Cult Tv, curato da Barbara Maio per la Rigel Edizioni. Il libro, disponibile online gratuitamente, in formato pdf, riflette ed indaga intorno al fenomeno della cultualità televisiva (con specifico riferimento alla serialità) grazie agli stimolanti contributi forniti, fra gli altri, da Henry Jenkins, Roberta Pearson, Jason Mittell, Matt Hills e Jane Feuer…Di seguito l’indice del volume:

Introduzione di Guglielmo Pescatore

Prima Parte
Cosa è un Cult? di Barbara Maio
Pensieri sparsi sulla tv di Henry Jenkins
HBO e il concetto della tv di qualità di Jane Feuer
Il Cult Transmediale di Corrado Peperoni
Cult Television e Industria Televisiva di Catherine Johnson

Seconda Parte
Twilight Zone come Cult Television di Barry Keith Grant

L’eteroglossia di Star Trek di Roberta Pearson
Farscape, Incidenti e Territori Inesplorati di Jay P. Telotte
Lost.
Persi in una Grande Storia: la Valutazione nella Narrazione Televisiva di Jason Mittell
Piaceri Ripetuti: Storia, Narrazione e Formati Multipli nella Televisione di Fantascienza. Star Trek: Enterprise e Battlestar Galactica di Lincoln Geraghty
Torchwood e il Cult Emergente di Matt Hills
24. Le Molte Possibili Riflessioni su una Serie di Culto di Vito Zagarrio
Queer as Folk: il programma più gay mai realizzato di Giada Da Ros

 

Cult TV

Ecco inoltre un estratto (le conclusioni) del saggio che Vito Zagarrio ha dedicato a 24, che per il suo concentrarsi intorno alle evoluzioni dei formati narrativi dagli anni Novanta ad oggi, mi sembra evidentemente legato agli argomenti che di solito tratto da queste parti…buona lettura.

«A monte di 24 c’è quella profonda mutazione della narrazione che io ho avuto modo di chiamare la “narrazione esplosa”, ovvero la tendenza a decostruire il racconto secondo le istanze postmoderne e digitali. Si tratta di opere in cui la concezione moderna della linearità cronologica, incentrata sulla distinzione tra passato e presente entrambi proiettati verso il futuro, cede il passo ad una concezione postmoderna della temporalità frammentata e confusa. Ma sono anche opere che riflettono indirettamente l’influenza delle nuove tecnologie sul linguaggio cinematografico, tramite la scomposizione della linearità cronologica e spaziale del racconto per  mezzo di formule quali la ripetizione, la sequenzialità non consequenziale e altre modalità tipiche della narrazione digitale.

Una strutturazione fratta, quindi, come frutto della crisi ontologica ed epistemologica del cinema nell’epoca della crossmedialità, in cui una nuova generazione di filmmakers produce storie per una nuova generazione di spettatori, entrambe abituate all’uso del telecomando, del DVD e del DViX, insomma ad una possibilità di visione dei film maggiore rispetto alle generazioni precedenti. Pratiche che fanno dei “puzzle film” il terreno ideale per una riflessione sul cinema contemporaneo, ormai irrimediabilmente ibridato con altre forme espressive dell’universo iconico, quali la videoarte, il videoclip, il videogioco, o più semplicemente con l’omnicomprensiva categoria degli “audiovisivi” (o delle “immagini in movimento”, nell’accezione di Alessandro Amaducci).

Mi farò aiutare, qui, da una serie di lavori (tesi universitarie, tesi di dottorato, lavori di postdottorato), che hanno indagato a fondo il vasto panorama teorico dedicato a questo nuovo universo testuale, che 24 riflette. Voglio citare giovani studiosi come Valentina Vincenzini, Luca Ottocento, e la già citata Federica Pellegrini, che hanno sintetizzato le posizioni teoriche sul cinema e sulle serie postmoderne (la Pellegrini in particolare, oltre che su 24, su Lost e Flash Forward, che sono le altre due serie di culto che offrono un coté filosofico molto sottile). Se da un lato studiosi come David Rodowick riflettono sulla “stagione della paranoia digitale”, dall’altro studiosi come Lev Manovich e Marsha Kinder riflettono sulla possibilità di nuove forme narrative derivate da strumenti tipicamente informatici quali il loop e il database. Parallelamente, Gianni Canova parla di metanarratività, ovvero di un cinema che mette in scena il proprio raccontare, le scelte diegetiche, come nel caso di Pulp Fiction di Tarantino. Si tratta di un cinema, quindi, che mostra se stesso, che esibisce il proprio linguaggio andando oltre i “fuochi d’artificio” di Jullier, pur mantenendo una forte componente ludica. Inoltre, anche se tale fenomeno non rappresenta la forma narrativa dominante del cinema contemporaneo, ancora legato ad una concezione “classica” di racconto, e consiste in un numero relativamente ridotto di film, tuttavia si impone come fenomeno di portata internazionale. Nonostante le diverse modalità di approccio e di valutazione, la teoria contemporanea concorda sull’uso del termine complex storytelling e individua nell’uso di una temporalità non lineare, nell’uso di strutture o concetti dei nuovi media (database, spazio navigabile) e nell’approccio con la realtà virtuale (rappresentazione di mondi paralleli, fantasie dei personaggi) le caratteristiche principali del fenomeno della “narrazione esplosa”. La centralità del nuovo rapporto spettatore-film dato dal progresso tecnologico è il filo comune che lega le nozioni di mind-game films di Thomas Elsaesser, puzzle films di Jason Mittel e psychological puzzle films di Elliot Panek. Secondo i tre autori, i film con una struttura narrativa non lineare sono una risposta dell’industria cinema alla richiesta di storie in grado di intrattenere un nuovo tipo di “gioco” narrativo da parte di un pubblico sempre più vasto ed esigente. Ripercorrendo i punti chiave del saggio di Jason Mittel dedicato all’analisi della complessità narrativa nella televisione contemporanea, possiamo vedere come anche egli consideri gli anni novanta come gli anni della complessità narrativa (non solo al cinema ma anche nelle serie televisive), in cui l’influenza di altre forme narrative quali i romanzi, i videogames e i fumetti origina un’era di sperimentazione e innovazione. Secondo Mittel, la nascita di una complessità narrativa che lavora principalmente su una diversa percezione del tempo, coincide con una serie di trasformazioni chiave nell’industria dei media, una sorta di conseguenza dell’uso delle nuove tecnologie che ha mutato radicalmente il rapporto tra spettatori e audiovisivi. Tra le innovazioni principali vi sono ad esempio il sistema VCR e il DVD, due supporti che permettono all’utente di gestire arbitrariamente il tempo della narrazione (e quindi si ha la possibilità di accedere alla visione multipla, acronologica o parziale di un testo audiovisivo), mentre la diffusione di internet ha permesso la nascita della fan culture, ovvero la possibilità degli utenti di interagire con il mondo delle narrazioni attraverso videogames, blog, siti, attraverso internet gli spettatori possono acquisire informazioni, discutere, scambiarsi modelli interpretativi e avere conferma/confutazione della propria tesi. Ovviamente, sottolinea Mittel, non è la tecnologia ad intervenire direttamente sulla narrazione, è semplicemente lo spettatore che, per la prima volta, ha un ruolo meno passivo. Mittel riprende il concetto di operational aesthetic di Neil Harris secondo cui gli spettatori non traggono piacere solamente nel seguire la storia, ma anche dalle tecniche utilizzate per rappresentarla. In questo senso, il videogioco ha sicuramente avuto un ruolo decisivo nella sempre maggiore popolarità dei puzzle films, predisponendo gli spettatori sia ad un rapporto interattivo con la narrazione, sia al piacere del gioco, qui inteso come gioco interpretativo di un cinema che mira al disorientamento e alla confusione. Elliot Panek, completa il quadro tracciato da Mittel, aggiungendo la categoria di psychological puzzle films.

La chiarezza della narrazione classica è elusa da film che giocano sulla confusione tra realtà e finzione, insinuando il dubbio nello spettatore che deve trovare la giusta chiave di interpretazione del film: la narrazione non è più affidabile e il ruolo dei vari elementi non è immediatamente evidente. Warren Buckland chiama puzzle films quei film che utilizzano delle strategie narrative che rifiutano la struttura classica del racconto e la rimpiazzano con uno schema più complesso. Ebbene, tutto questo enorme dibattito teorico può essere facilmente applicato a 24, che non a caso è diventato, sin dalla prima stagione, un videogioco prodotto dalla Sony.

È per questo che 24 è – forse suo malgrado – un piccolo miracolo creativo, produttivo, ideologico, registico. Un testo che resta nella storia del film e della televisione, o meglio di quel “cinema espanso”, puzzle a sua volta di molti mezzi, tipologie e approcci, che è oggi uno dei fenomeni più interessanti dell’universo mediatico (1). »

A presto
Cor.P

(1) i link presenti nell’estratto non sono parte del testo originale.

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