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Vi segnalo il corso biennale sulla narrazione crossmediale della Scuola Holden di Torino, che a partire dall’ottobre 2013 avvierà sei College dedicati allo Storytelling, uno dei quali dedicato appunto al Crossmedia.
Ecco come il corso viene presentato nel sito della scuola:
un College proiettato in avanti, per chi vorrebbe diventare un futuro Harper Reed, CTO della campagna elettorale di Obama. Raccontare utilizzando Facebook, i giornali, Twitter, una serie a fumetti, le sorprese nei sacchetti delle patatine, Youtube, un instant book, un servizio fotografico, un film. Può sembrare un concetto rivoluzionario, ma in fondo non c’è niente di nuovo. Basti pensare che l’Iliade e l’Odissea sono l’esempio più riuscito di download gratuito dell’epoca classica e che da allora la cultura occidentale non ha fatto altro che raccontare quelle due storie. Non importa che siano torrenti, ghiaccioli o nuvole, quel che conta è che le storie adottano la strategia dell’acqua: possono essere dette in infiniti modi diversi. Nei 4.047 metri quadrati della nuova Scuola, e dovunque sia disponibile una rete wireless, racconterai attraverso i social network, le newsletter, le affissioni, le interviste, gli spot televisivi, i comizi. Perfino i libri. Imparerai a declinare una storia attraverso tutti i mezzi di comunicazione possibili, insomma.
Il termine per la compilazione dell’application form scade il prossimo 21 giugno.
Eccoci alla terza parte del pezzo di Giada Da Ros sulle Soaps in Transmedia…per chi se le fosse perse, qui ci sono la prima e la seconda parte. Buona lettura
Cor.P
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Da una medium all’altro, alla ricerca del pubblico perduto: Fino alla metà degli anni Settanta il rating delle soap di maggiore successo si mantiene stabilmente al di sopra del 10%, con picchi che in alcuni casi, come per As The World Turns nel 1963-1964, si avvicinano o superano il 15%. Dalla seconda metà degli anni Settanta si registra una flessione del rating, che rimane comunque, fino alla prima parte degli anni Novanta, superiore all’8%. E’ nella stagione 1994-1995 che la serie di maggiore successo, The Young and the Restless, scende al 7,5%…negli anni successivi l’emorragia di spettatori, per le soap opera del daytime, diventa sempre più massiccia e nella stagione 2010-2011 la soap più seguita (ancora the The Young and the Restless) si attesta al 3,6%.
In questo contesto il fenomeno delle novellizzazioni, di cui ho parlato nel post precedente, rimane rilevante. Ma se negli anni Ottanta il senso di queste operazioni era evidentemente quello di sfruttare su più piattaforme il successo conquistato sul piccolo schermo, a partire dalla seconda metà dei Novanta il tentativo diventa quello di racimolare altrove quel pubblico che in tv si sta via via disperdendo. Dei molti possibili esempi, mi limito a quelli degli ultimi anni. Da Kendal Hart, un personaggio di All My Children, nel 2008 si è avuto Charm!, un roman à clef; a due dei personaggi di As the World Turns/Così Gira il Mondo si devono invece libri che raccontano gli eventi della città: Katie Perretti ha dato alle stampeOakdale Confidential: Secrets revealed(2006), mentre Henry Coleman scrive The Man from Oakdale(2009), recensito, o comunque commentato, dalla stessa Perretti e da altri personaggi della soap. In merito ecco, ad esempio, il blurb di Margo Hughes, capo della polizia dell’immaginaria cittadina di Oakdale: “Henry Coleman merita di essere arrestato per aver scritto questo libro”.
La vera autrice, Alina Adams, Creative Content Producer per As the World Turns e Guiding Light, ha pubblicato anche Guiding Light: Jonathan’s Story(2008), dedicato alle vicende del figlio di Reva, interpretato da Tom Pelphrey, nel periodo in cui era fuori dal cast televisivo. Legato alla stessa soap anche il precedente Lorelei’s Guiding Light: an intimate diary (2002) che svela, come descrive la quarta di copertina, la “Lorelei che gli spettatori del programma non hanno mai visto – la storia e le emozioni, le speranze e i sogni che l’hanno resa la stella di un dramma umano indimenticabile”. L’autrice è Beth Chamberlin, che ne interpreta il personaggio in Sentieri.
Ancora più recente, ed anche in questo caso scritto da un’attrice, Carolyn Hennesy (nota per una serie di libri per pre-adolescenti del ciclo Pandora’s Mythic Misadventures) è The Secret Life of Damian Spinelli (2011) in cui l’hacker di General Hospital, noto come The Jackal, rivela vicende inedite sugli abitanti di Port Charles all’avvocato Diane Miller, che nella serie è interpretato proprio dalla Hennesy.
Questi libri, di solito non elevatisi oltre il livello di un mediocre romanzo rosa, non hanno avuto un grande successo. I fan li hanno apprezzati solo quando sono li hanno percepiti fedeli al canone delle serie di riferimento, attaccandoli invece in maniera aspra in caso contrario.
In queste circostanze incoerenti, l’espansione narrativa crossmediale può quindi rivelarsi un’arma a doppio taglio, come sottolinea Raquel Gonzales in From Daytime to Night Shift (un saggio nel già citato The Survival of Soap Opera, menzionando il caso dello spin-off General Hospital: Night Shift, in onda per due stagioni (a partire dal 2007), di tredici e di quattordici episodi, sul canale via cavo dedicato SOAPnet, e lanciato come “un grande passo per la ABC verso questo trend di distribuzione online, con il programma accessibile su ABC.com, AOL Video, Verizon’s Soapnetic, iTunes e ABC Mobile”.
Night Shift – ibrido fra soap serale e diurna con episodi autoconclusivi, sul modello di Grey’s Anatomy – riprendeva alcuni personaggi principali dalla matrice General Hospital, introducendone però di nuovi. In onda una volta a settimana, la serie mostrava i personaggi dell’ospedale durante il turno di notte. La seconda stagione, sceneggiata da Sri Rao, venne meglio accolta da pubblico e critica. La prima stagione, scritta da Robert Guza jr, autore della soap madre, aveva invece disorientato il pubblico: secondo Gonzales “i tentativi di riconoscere General Hospital ed il suo spin-off come un unico canone narrativo sono resi impossibili a causa delle contraddizioni fra le loro rispettive storyline e linee di sviluppo dei personaggi […]; capire il canone è cruciale per i fan perché gli spettatori spesso basano il loro ‘capitale culturale’ delle soap sulla conoscenza del canone”. Due brevi esempi: nello stesso tempo diegetico in General Hospital Jason si trova in un carcere di massima sicurezza, mentre nello spin-off gli viene comminata una pena alternativa, lavorare come inserviente in ospedale; in General Hospital Maxie e Spinelli sono in buona salute, mentre nello spin-off la prima è in arresto cardiaco, e il secondo, dopo essersi sparato ad un piede, si muove con le stampelle…
È evidente come per gli spettatori diventi difficile riconciliare eventi così contradditori. La situazione, per gli spettatori più affezionati, risultò ancor più irritante quando, dopo la chiusura di Night Shift, alcuni dei nuovi personaggi passarono nel cast di General Hospital, spiazzando chi non aveva visto lo spin-off.
Caso a se stante, bizzarro ed isolato, è quello della sinergia (datata 2006) tra Guiding Light e la Marvel Comics. La major dei fumetti inserisce in un albo una storia di otto pagine con Harley che incontrava gli Avengers e i Sinister Six mentre in Sentieri, in uno degli episodi conosciuti come Inside The Light, i personaggi vengono fumettizzati e Harley diventa un’eroina dai super poteri per un giorno, complice una scarica elettrica di corrente che la fa finire in ospedale. “(I)l fumetto è un interessante esempio di trans-media storytelling. Springfield la città comune per antonomasia in cui si svolgono le vicende di Guiding Light, è incorporata senza sforzo nell’universo Marvel (piuttosto che, per dire, far viaggiare gli eroi della Marvel in una dimensione alternativa). Il finale da cliff-hanger serializzato accenna anche alla possibilità di futuri intrecci del plot” (Sudsy Superheroes and Transmedia Storytelling, or, Why Comic Book Heroes Do It Better). Questi intrecci non hanno mai visto un ulteriore sviluppo e l’esperimento, visto ex-post, appare un ennesimo tentativo, occasionale e velleitario, di rincorrere il pubblico perduto.
Da questo punto di vista sembrano più giustificabili, e meglio concepite, le occasioni in cui la soap torna al suo primo amore, la radio, seppure rimediata in chiave digitale. In questo ambito ha avuto una certa fortuna The Clarence B&B Update, in cui Brad Sanders, noto al pubblico radiofonico come Cla’ence, fa un sunto settimanale delle vicende di Beautiful in chiave comica, ridoppiando le voci dei personaggi in alcuni flash del programma. L’aggiornamento, nato come sketch comico quotidiano per Febbre d’amore, è disponibile sul sito di Beautiful. Simile l’idea sviluppata nel 2007 in Sud Africa per parodiare DAYS, con la trasmissione radiofonica (poi podcast) in 75 puntate Days of Our Mornings.
Ovviamente, in questa rincorsa delle soap all’audience perduta, la rete ha avuto un ruolo fondamentale, sul quale mi concentrerò nella quarta parte.
Eccoci alla seconda parte dell’intervista a Milly Buonanno che, al termine della prima parte, ha espresso l’ipotesi che il forte rilievo della componente ludica nei franchise transmediali possa generare spinte disgregatrici di quel legame sociale che il tradizionale consumo mainstream di narrazione contribuisce invece a creare…Buona lettura!
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Xmp:… Transmedia storytelling…al di là delle riflessioni sulla ludicizzazione della narrazione, sugli obiettivi economici che spesso spingono alla sua adozione, pensa possa anche – semplicemente – essere la risposta ad una esigenza espressiva?
Milly Buonanno: certo! Però…può sembrare non c’entri niente, ma proprio nei giorni scorsi sentivo alla radio una dichiarazione di Riccardo Muti che diceva ‘lasciate perdere i musicologi, la musica non deve essere capita, non va analizzata, alla musica bisogna abbandonarsi’. Ecco io trovo che il piacere della narrativa sia un’esperienza straordinaria…e qui non c’è l’abbandonarsi. Comprendo bene che è anche importante che ci sia questa sollecitazione ad un intervento, ad una partecipazione, ma quello che mi domando è se questo lascia tempo anche per il piacere, per la disposizione all’abbandono, che non è soltanto una grande soddisfazione, una splendida esperienza emotiva ed intellettuale, ma è anche una forma di rispetto, se si vuole, nei confronti della creatività altrui. Il fatto che oggi si solleciti così tanto l’intervento individuale all’interno di piccoli o grandi mondi narrativi costruiti da altri, mi lascia pensare ad una direzione del consumo e della produzione tendenzialmente egotica…
Xmp: si rischia forse di stimolare una bulimia nello spettatore? Gli si offre un menù narrativo sconfinato, che però non lo lascia mai completamente sazio, ma anzi, ancora un po’ affamato, sempre a volerne un po’ di più…
Milly Buonanno: no, non credo che sia questo, o meglio, forse si coltiva una bulimia, che però è una bulimia molto settorializzata e specializzata. Il punto è che io non penso che coloro che fruiscano in maniera onnivora, transmediale di questi franchise, siano l’equivalente dei grandi lettori. I grandi lettori sono coloro che leggono non soltanto in maniera immersiva, ma che leggono molte cose. Questo tipo di impegno, di engagement – e stiamo parlando dei fan soprattutto – è un tipo di impegno molto esclusivo e molto prescrittivo, assorbe, concentra. Occupa così tanto tempo che non c’è modo di seguire altro. Io li vedo un po’ come universi narrativi concentrazionarii, e del resto è quello che si osserva: quelli che hanno seguito Lost in questo modo così appassionato, hanno visto poco altro. Voglio però essere chiara sul fatto che la mia polemica non è nei confronti di chi produce questi franchise e di chi ci fa marketing, facendo semplicemente il proprio mestiere, come pure non lo è nei confronti dei giovani che da questi prodotti sono attratti; è nei confronti degli studiosi – e dell’opinione pubblica intellettuale in generale – che esaltano questi fenomeni, che sono certamente interessanti e che hanno diritto alla nostra attenzione, ma non hanno diritto ad una esaltazione acritica, che non prenda in considerazione le conseguenze di carattere culturale e sociale di queste nuove modalità narrative.
Xmp: Venendo più specificamente ai meccanismi narrativi adottati in questi franchise, al di là del discorso dell’immersività, io trovo molto interessante come la costruzione di universi narrativi dispersi su più piattaforme mediali possa contribuire in maniera significativa ad incrementare il senso di realtà del mondo finzionale che si offre al pubblico…Ad esempio Cloverfield, un film che definirei un Godzilla post Blair Witch Project, è stato preceduto da tutta una serie di siti, blog, pagine myspace, in cui il pubblico poteva interagire direttamente con quelli che si sarebbero di lì a poco scoperti essere i protagonisti del film, in un dialogo paritetico, sullo stesso piano di esistenza. Mi sembra piuttosto affascinante…
Milly Buonanno: sì, è certamente un elemento di fascino del tutto comprensibile, d’altro canto però i grandi lettori hanno sempre dialogato con i personaggi di una storia.
Xmp:…ma tutto avveniva solo nell’immaginazione del lettore, in quelle passeggiate inferenziali di cui parla Eco nel suo Lector in Fabula…
Milly Buonanno: …sì, nei boschi narrativi abbiamo sempre passeggiato, mentre adesso, per certi aspetti, è come se ci fosse bisogno di una maggiore materializzazione rispetto ai dialoghi e alle relazioni sempre immaginarie che nel passato ognuno di noi ha intrattenuto con i propri personaggi letterari più amati. Ma il contesto rimane comunque fortemente mediato ed irreale.
Xmp: secondo lei esiste una via italiana al transmedia storytelling?
Milly Buonanno: …non saprei, ritengo che nelle sue forme più compiute e di maggiore successo, il transmedia storytelling richieda degli investimenti piuttosto ingenti. Detto questo non so se esistano delle specificità, delle caratteristiche tipicamente italiane nel realizzare franchise transmediali. Per ora non vedo grandi prospettive, mi sembra che da noi ci siano parecchie difficoltà anche nel produrre storie lineari…se guardo al panorama di questi anni della fiction italiana quello che manca è proprio la capacità di differenziazione, dei generi, delle storie, dei personaggi. In Italia c’è già difficoltà a fare delle storie semplici, mentre quelle sviluppate lungo percorsi transmediali sono decisamente delle storie complesse, c’è molta di quella complessità della struttura narrativa di cui parla Jason Mittell. Mi sembra però che nel transmedia storytelling il baricentro delle componenti di una narrazione, e della sua complessità, si sposti fortemente sulle componenti formali. È indiscutibile che questo possa essere considerato uno degli elementi della complessità narrativa, ma uno, non il solo elemento. C’è anche la complessità nella costruzione psicologica dei personaggi, la complessità della trama, la complessità emotiva. Mi pare invece che si stia correndo il rischio di confondere per complessità quella che spesso è solo una formale, macchinosa, manieristica complicazione.
Xmp: …in qualche modo questa macchinosa complicazione si lega all’approccio creazionistico che molti autori oggi manifestano nei confronti delle loro storie? L’esempio del pianeta Pandora di Avatar è il più ovvio, ma lo stesso Lost, pur essendo per grandissima parte ambientato in uno spazio molto delimitato, risulta poi espandibile in maniera pressoché infinita. Il worldbuilding storytelling, questo far sorgere la storia dall’ambiente stesso in cui la si situa, ci porta di nuovo al sempre maggiore rilievo che i videogame occupano nella cultura popolare…
Milly Buonanno: certo, concordo…ma se posso dire una cosa, forse ereticale, io penso che di Avatar fra qualche decennio, o forse anche prima, si dirà quello che Fantozzi ha avuto il coraggio di dire per la Corrazzata Potemkin!
Xmp:…Sicuramente la storia è in gran parte già sentita, da Balla coi Lupi in poi. Senta secondo lei ci sono degli elementi di genderizzazione nell’appeal e nella fruizione di questi franchise transmediali?
Milly Buonanno:..preferisco non dirlo sulla base di congetture o speculazioni personali. Comunque leggevo proprio ieri un paper su questo argomento sulla rivista Television & New Media, e sembra che i primi studi stiano rilevando una certa genderizzazione maschile di questi prodotti. Io non penso che le tecnologie ed il genere femminile debbano necessariamente essere visti come mondi difficilmente conciliabili, però in effetti ho l’impressione che ci sia uno spostamento verso il maschile, ma il tutto dipende anche dal genere narrativo prescelto, naturalmente.
Xmp: a me sembra che l’area di ricerca dei transmedia studies – forse perché ancora, per così dire, in fase adolescenziale – sia affetta da una sostanziale mancanza di chiarezza terminologica: transmedia, cross media, intermedia. Lei cosa ne pensa?
Milly Buonanno:, sì, concordo decisamente, c’è poca chiarezza sotto il cielo del lessico concettuale di queste materie. E poi c’è una rincorsa a creare una propria etichetta, una propria terminologia, sperando sia quella che attecchisca ed abbia maggiore successo e diffusione. Al riguardo la mia polemica è tutta interna, in ambito scholar. Nel settore dei television studies, in cui fortunatamente ci sono molti giovani, mi sembra ci sia una sorta di rincorsa a tutto ciò che è trendy, determinando un accumulo, un’ipersaturazione non tanto di ricerca – perché poi di ricerca non ce n’è molta e invece mi piacerebbe che ce ne fosse – ma più che altro di speculazione. Questo determina, a complemento, un deficit di analisi e approfondimento intorno a quelle che rimangono le forme mainstream di produzione, distribuzione e consumo di narrazioni. Si sta determinando uno squilibrio e ciascuno, come diceva lei, vuole arrivare per primo piantando la propria bandierina lessicale con espressioni che però vanno incontro ad un rapido processo di obsolescenza.
Xmp: Tornando in ambito italiano, mi sembra che il successo di serie come Boris e I Soliti Idioti, debba molto a quella spreadability descritta da Henry Jenkins…un prodotto che invita il proprio pubblico a rilavorarlo, segmentarlo, rimontarlo, e rilanciarlo viralmente in rete…non è forse anche su questa capacità che bisognerebbe cominciare a giudicare i prodotti narrativi? Non più, non solo, quanto sono visti, ma anche quanto diventano oggetto di manipolazione e scambio da parte del pubblico?
Milly Buonanno: Sì, ma poi vengono anche visti? Mi chiedo cioè se la dimensione dello scambio esaurisca il rapporto con il prodotto. Mi viene sempre in mente un fatto di qualche anno fa, ai tempi de Il nome della Rosa…vendette milioni di copie, e fu incluso in molti corsi universitari. Qualcuno raccontava, ed io trovo che non sia un aneddoto inventato, che ad un esame in una università americana venne chiesto allo studente se avesse letto il romanzo e lo studente rispose ‘non personalmente’! Ecco allora forse in questo scambio può esserci una forte componente di ‘non personalmente’, poi certamente funziona dal punto di vista commerciale, delle vendite…
Xmp: e forse comporta, accanto alla frammentazione e dispersione fruitiva di cui parlava lei, anche una frammentazione, una riduzione in clip e micro citazioni, del prodotto narrativo stesso.
Milly Buonanno: Esattamente.
Xmp: Un’ultima domanda, su quelle soap operas che per anni sono state focus della sua ricerca accademica…Le soap nascono in radio e migrano in televisione negli anni quaranta e cinquanta, in alcuni casi mantenendo anche una continuità narrativa nel passaggio da un canale di distribuzione all’altro. Può essere considerato un esempio di transmedialità ante litteram?
Milly Buonanno: Beh no, in senso proprio no, perché queste forme di passaggio da un canale all’altro ci sono sempre state, anche molti secoli prima dell’affermazione dei mass media. Il transmedia storytelling è più la costruzione di un universo segmentale, e non lo spostamento di uno stesso prodotto o di una stessa storia da una piattaforma all’altra, che trovo più una forma di adattamento…io che sono una grande sostenitrice della forte portata innovatrice delle continuos series – come appunto le soap operas – trovo che le stesse siano all’origine e alla base di fenomeni contemporanei considerati innovativi e rivoluzionari, oltreché di grandissimo successo, come lo stesso Lost. La grande serialità contemporanea deve tantissimo alla soap opera, e del resto c’è di questo, almeno nella letteratura americana, un grande riconoscimento. Molte delle cose che noi esaltiamo come profondamente innovative in Lost, erano già presenti da decenni nelle soap operas…
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… ringrazio ancora Milly Buonanno per il tempo dedicato a CrossmediaPeppers…
…Su questo conclusivo, condivisibile, riconoscimento ai meriti fondativi delle soap operas ci ricollegheremo tra qualche giorno, con una serie di post dedicati ad una lettura del fenomeno soap in ottica transmediale…
Lost Experience è un Alternate Reality Game (Arg) lanciato nel maggio del 2006 e conclusosi nel settembre dello stesso anno, tra il termine della seconda e l’inizio della terza stagione televisiva di Lost.
In una storyline parallela a quella della serie per il piccolo schermo, la protagonista è Rachel Blake, figlia di una ex-dipendente della fantomatica Hanso Foundation, di cui ha scoperto le reali e sinistre finalità, celate sotto le ben più accettabili insegne degli scopi umanitari. Convinta che la fondazione sia anche responsabile della morte di sua madre, Rachel dissemina su vari media informazioni riservate della Hanso, per denunciarne le reali, sinistre, mire. Tra queste informazioni settanta codici numerici, che opportunamente raccolti dai partecipanti a Lost Experience, consentono di ricostruire un filmato di oltre sei minuti (lo Sri Lanka Video) contenente rivelazioni utili per comprendere alcuni dei misteri lasciati in sospeso nel corso della prime due stagioni della serie televisiva.
Per chi decide di viverla, l’Experience è quindi una caccia al tesoro, con i codici utili a ricostruire lo Sri Lanka Video sparsi tra siti internet, libri, spot televisivi, riviste ed eventi live.
Inizialmente il focus del gioco è intorno al sito ‘ufficiale’ della Hanso Foundation, in cui una hacker (Persephone, che solo successivamente si scoprirà essere Rachel Blake) dissemina indizi che mettono in discussione la filantropia delle fondazione. Come rabbit hole per attirare gli spettatori della serie nell’arg, vengono utilizzati spot della fondazione stessa, mandati in onda sull’ABC, Channel7 e Channel4 nei primi giorni del maggio 2006. Al termine di questi spot appare un numero di telefono, chiamando il quale una voce registrata indirizza al sito della Hanso, o a sue specifiche sezioni. In questa prima fase viene anche pubblicato il libro Bad Twin, che vede accreditato come autore uno dei passeggeri morti nel volo 815, Gary Troup. In molti quotidiani vengono pubblicati annunci a pagamento della Hanso Foundation, che condanna il libro per aver gettato discredito sulla fondazione. A dire il vero l’esatta relazione tra Bad Twin e Lost non è particolarmente chiara, ed anzi il libro di Gary Troup è forse, tra le estensioni transmediali del franchise, la meno convincente.
Nella fase successiva della Lost Experience si entra quando il sito della Hanso viene chiuso in risposta all’attività di hackeraggio di Persephone. Nascosto nel codice sorgente del sito rimane però il link al blog di Rachel Blake, che apparentemente non è altro che un diario del suo viaggio in Europa. Inserendo codici segreti in specifiche sezioni del blog, si viene però introdotti in un sito fantasma (stophanso.rachelblake.com) in cui Rachel carica periodicamente video che documentano i suoi tentativi di smascherare la Hanso e il suo nuovo amministratore unico, Thomas Werner Mittelwerk.
In questa sua rincorsa della verità Rachel Blake arriverà a seguire Mittelwerk fin nello Sri Lanka, mentre i partecipanti alla Lost Experience raccolgono altri indizi, sparsi in televisione, in rete o in eventi dal vivo, per poter accedere ai contenuti che Rachel continua a mettere a disposizione nell’area riservata del suo sito.
Una svolta decisiva avviene al San Diego Comic Con del 2006. Il 22 luglio Rachel è mischiata tra il pubblico che assiste al panel di Lost, presieduto da parte del cast e del team autoriale della serie. Quando è il momento delle domande dal pubblico, Rachel si fa consegnare il microfono è si scaglia verbalmente contro le persone sul palco, accusandole di essere d’accordo con la Hanso, di coprirla, insistendo perché ammettano che la fondazione esiste davvero. Infine – prima di essere portata via dalla security – Rachel urla al resto del pubblico che chi vuole sapere la verità deve connettersi al sito hansoexposed.com.
Da questo momento l’obiettivo dei partecipanti alla Lost Experience è raccogliere i settanta codici numerici che consentono di mettere insieme le singole parti dello Sri Lanka Video girato di nascosto da Rachel Blake. Nel video, le cui rilevazioni sono il premio per i fan di Lost così onnivori da partecipare in maniera attiva e costante all’Experience, Mittelwerk proietta un filmato orientativo di Alvar Hanso che svela molti segreti sulla Dharma Initiative, avviata a metà degli anni ’70 del secolo scorso per cambiare le sorti dell’umanità, predette nella cosiddetta Equazione di Valenzetti (4 8 15 16 23 42), le cui cifre ricorrono numerose volte nel corso della seconda stagione della serie televisiva, ma il cui significato viene svelato solo nel corso di questo arg. Il progetto Dharma, con azioni volte a intervenire su fattori ambientali ed umani, aveva quindi proprio lo scopo di modificare le cifre dell’equazione di Valenzetti, costantemente trasmesse dalla stazione radio nell’isola.
Lo Sri Lanka Video è sicuramente il cuore dell’Experience, ma non ne rappresenta la conclusione, per la quale vi rimando al prossimo post…
Come ho avuto modo di sottolineare in alcuni post precedenti, i franchise transmediali utilizzano spesso le tecniche dell’environment storytelling (o worldbuilding storytelling). Così, dai Simpson a StarTrek, da Babylon5 a X Files, da Buffy the Vampire Slayer a Guerre Stellari, da Matrix fino ad Avatar, molti franchise descrivono mondi articolati, che non si limitano a fare da sfondo all’avanzare del racconto, ma forniscono molteplici partenze potenziali per nuove avventure e scoperte, in cui l’esplorazione geografica del mondo finzionale fornisce lo spunto più naturale – ma non l’unico possibile – per l’espansione della narrazione su più media. Quindi l’ambientazione diventa essa stessa generatrice di storie, perchè la presenza di strutture spaziali ben delineate nella narrazione, ed al contempo il richiamo all’esistenza di spazi ulteriori, creano la precondizione fondamentale affinché la storia, e chi dalla stessa rimanga appassionato, possa intraprendere il proprio viaggio attraverso aree inesplorate dell’universo finzionale, per il tramite di canali mediali diversificati. È però opportuno sottolineare che il worldbuilding storytelling non stimola, e non sfrutta, solo la spinta all’esplorazione spaziale del mondo che genera, ma anche il desiderio di approfondirne specifici aspetti. In altri termini, oltre a motivare i fruitori del franchise a muoversi orizzontalmente esplorando l’universo finzionale, cerca anche di coinvolgerli in un movimento verticale, di penetrazione, approfondimento, studio di suoi specifici elementi. Per questo motivo per costruire un universo finzionale coerente e credibile, capace di immergere gli spettatori nel flusso narrativo transmediale, può non bastare immaginare luoghi di ampio respiro spaziale e numerosi personaggi che li popolino. E’ necessario anche concepire una cultura, dei costumi, degli stili di vita che stimolino un interesse quasi (ma qui ragiono per iperbole) antropologico nello spettatore. Insomma un approccio creazionista alla narrazione transmediale, che arriva, in alcuni casi, alla ideazione di una nuova lingua.
Questo mi porta nuovamente a parlarvi di Avatar, e della lingua Na’vi inventata ex novo dal linguista Paul Frommer, per il franchise di James Cameron. Il Na’vi, nel film, è parlato dagli abitanti del pianeta Pandora.
«[…] Cameron voleva un linguaggio completo, con un sistema sonoro coerente (fonologia), delle regole nella costruzione delle parole (morfologia) e regole nel mettere insieme parole nelle frasi (sintassi), più un vocabolario (lessico) che fosse sufficiente per le esigenze del copione. Desiderava anche che il linguaggio avesse un suono piacevole e gradevole per il pubblico. […] Non ho iniziato esattamente da zero, dal momento che Cameron aveva già inventato da solo 30 o 40 parole per la sceneggiatura: qualche nome di personaggi, nomi di luoghi, di animali, ecc… Questo mi ha dato un’idea su quale tipo di suoni avesse in mente. Il passo successivo è stato quello di sviluppare fonetica e fonologia – le regole per combinare i suoni in sillabe e parole, quindi le regole di pronuncia che avrebbero potuto in determinate circostanze trasformare un suono in un altro. La principale restrizione è stata che, malgrado il Na’vi sia un linguaggio alieno, avrebbe dovuto essere parlato da attori, da umani. Così i suoni che ritroviamo sono quelli che gli attori sarebbero stati in grado di riprodurre. Per creare un certo interesse, ho incluso un gruppo di suoni che non si trovano spesso nelle lingue occidentali – suoni “eiettivi”, sorta di scoppiettii come kx, px e tx. Ho presentato a Cameron tre distinte “tavolozze di suoni”, tre possibilità sonore globali per il linguaggio – ne ha scelta una, et voilà! Il passo successivo è stato quello di decidere morfologia e sintassi. In questo caso, me ne sono occupato personalmente. Poiché questa è una lingua aliena, parlata su un altro pianeta, ho voluto includervi strutture e processi che fossero relativamente rari nel linguaggio umano, ma che avrebbero potuto essere acquisiti facilmente, soprattutto perché nella trama del film alcuni personaggi umani imparano a parlare Na’vi. La morfologia verbale, per esempio, viene ottenuta esclusivamente attraverso infissi, che sono meno comuni di prefissi e suffissi. E i nomi hanno un sistema di marcatura, noto come sistema tripartito, un sistema possibile, ma piuttosto raro nelle lingue parlate dagli umani. […] per gli attori è stata una vera sfida. Hanno dovuto imparare le loro battute in una lingua che nessuno aveva mai sentito prima. Hanno dovuto imparare combinazioni di suoni inusuali e recitarli in maniera convincente! Questo ha comportato non solo la memorizzazione di frasi, ma anche la padronanza di intonazione al fine di porre l’enfasi giusta nel posto giusto. Non è stato facile, ma il risultato è notevole»
Come noto il Na’vi non è la prima lingua artificiale sviluppata per un prodotto dello showbiz. Precedente, e più celebre, è sicuramente la lingua Klingon, creata nel 1984 dal linguista Mark Okrand e parlata dall’omonima razza aliena nel franchise Star Trek. La lingua Klingon ha avuto molto successo tra i fans, molti di loro si sono dedicati al suo studio, ed esiste un Kli (Klingon Language Institute) con sedi in 30 diversi paesi, che contribuisce a diffondere la conoscenza di questo idioma artificiale. Meritano poi d’essere citati il dizionario Klingon, le diverse altre pubblicazioni in lingua (tra cui alcune traduzioni di Shakespeare) e la prima opera teatral-musicale in Klingon, andata in scena in Olanda nell’estate 2010.
Tornando al Na’vi, vi segnalo invece il sito LearnNavi.org, nel quale sono messe a disposizione dei fan moltissime risorse utili per imparare la lingua creata da Paul Frommer: vocabolari, regole fonetiche e grammaticali, dizionari (dal navi all’inglese, francese, estone, portoghese, tedesco, russo, svedese, olandese…).
E’ evidente che, muovendoci nel genere delle fantascienza, la creazione di una lingua aliena ad hoc è un elemento che conferisce maggiore credibilità e profondità all’universo finzionale descritto. Tale elemento diventa funzionale anche all’incremento delle opportunità di fruizione espansa del franchise offerte al pubblico, che viene stimolato all’approfondimento, al carotaggio (per utilizzare una terminologia geologica) di specifici aspetti del franchise. Le risorse linguistico didattiche, le interviste ai creatori delle lingue artificiali, opere letterarie preesistenti tradotte nella nuova lingua, sono tutti elementi che se non costituiscono direttamente espansioni narrative del franchise, contribuiscono comunque a rendere più capillarmente diffusi i segnali di ingresso allo stesso. Inoltre la complessità insita nell’apprendimento di una nuova lingua, per di più artificiale, mette in moto quelle dinamiche di intelligenza collettiva che hanno un ruolo rilevante nella creazione di community di culto intorno ai franchise crossmediali. Ma questi ultimi sono aspetti che meritano ben più di una fuggevole citazione conclusive…tornerò quindi a soffermarmici in post successivi.