Il 18 e il 26 ottobre si è svolto a Roma, presso l’università Sapienza, il terzo Fiction Day. ‘Orizzonti aperti, confini mobili’ il titolo di questa edizione del convegno, organizzato dalla Prof.ssa Milly Buonanno (responsabile tra l’altro del Osservatorio sulla Fiction Italiana – OFI). Riporto di seguito l’intervento di Gino Ventriglia – nel secondo giorno del convegno – incentrato proprio sul Transmedia Storytelling.
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Gino Ventriglia, lavora come scrip consultant e story editor per case di produzione cinematografiche e televisive (Rai Cinema, Lumiere, Studio Canal Urania, Tao2, Cattleya, Sintra, Eagle Pictures, Grundy, Filmmaster, IDF, Istituto Luce, Italian International Films, Bavaria). Per il cinema è coautore di tre film. Per la televisione è autore di sceneggiature per numerosi film-tv, serie e soap.
Docente in numerosi corsi di sceneggiatura (Corso Rai-Script, Scuola Holden, Centro Sperimentale di Cinematografia), tra le sue ultime pubblicazioni: Dancer in the Dark (Minimum Fax, 2000); Tre usi del Coltello – Scritti teorici di David Mamet (Minimum Fax, 2002); Il cinema oltre le regole – Nuovi modelli di sceneggiature di Jeff Rush e Ken Dancyger (Rizzoli, Holden Maps, 2000). Ha vinto una Fullbright Fellowship e conseguito un Master di Belle Arti in Regia e Sceneggiatura alla University of Southern California di Los Angeles.
«…Anche io parto, come chi mi ha preceduto, da una cosa che mi ha colpito molto durante la prima giornata del FictionDay, e cioè che molti broadcaster ed operatori si riferissero ad un concetto dato un po’ per scontato, e cioè quello dell’innovazione. Per innovazione si fa riferimento ad un cambiamento, qualcosa che ti da un di più, ma secondo me questo concetto va approfondito meglio. Sono andato a cercare chi sull’innovazione ha lavorato un’intera vita, un economista, Joseph Schumpeter, il quale ha costruito una teoria dello sviluppo economico fondandosi sul concetto, sulla categoria di innovazione. Vedendo i suoi lavori – visto il poco tempo a disposizione vado giù tranchant – emerge una distinzione di fondo, tra innovazioni incrementali ed innovazioni radicali. Quelle incrementali, dato un certo contesto mainframe, un certo prodotto, generano miglioramenti progressivi, aggiustamenti, che apportano migliorie a quello che è il prodotto, presentandolo come nuovo al un pubblico. Radicale significa invece che il cambiamento è sostanziale. La cornice, il contesto, il frame di riferimento è questo.
Allora, noi oggi in Italia, sulla produzione narrativa, audiovisiva in particolar modo, ragioniamo sostanzialmente in termini di innovazione incrementale. Il che significa muoversi in contesto predefinito di forme della fiction e di forme del loro consumo – badate bene – forme di consumo dentro un contesto di relazione narratore-spettatore oneway: dal narratore, ciò che viene prodotto per la televisione, arriva in qualche modo al pubblico. Dalla mia esperienza, e me ne sto occupando da un paio d’anni, c’è invece qualcosa di effettivamente molto nuovo. Negli Stati Uniti in particolare, e più in generale nei paesi anglofoni, dove sappiamo – non sto dicendo una novità – c’è un’industria più avanzata, nei confronti della quale noi in genere abbiamo un ritardo di alcuni anni rispetto a ciò che lì viene già proposto come standard consolidato, si sta realizzando quello che potrebbe essere indicato, utilizzando anche in questo caso un’espressione che non appartiene direttamente al nostro campo disciplinare, il cd paradigmatic shift, cioè il cambio di paradigma. Thomas Kuhn parlava di cambio di paradigma in riferimento ad una fase di mutamento sostanziale di visione fondativa, in ambito scientifico in particolar modo. Ad esempio nella struttura dell’evoluzione scientifica faceva riferimento a questo paradigmatic shift nel passaggio dalla visione tolemaica a quella copernicana, che ha comportato un cambiamento di prospettiva fondamentale. Thomas Kuhn suggeriva di non applicare questa categoria a contesti diversi da quelli scientifici, ma io invece ritengo possano essere utili anche al di fuori del confine suggerito da Kuhn.
Se pensiamo a tutto quello che il nuovo panorama mediatico offre rispetto alla narrazione audiovisiva, anche qui in Italia, dovremmo dire molto probabilmente che ci troviamo di fronte ad un cambio di paradigma. Ma qual è il nodo di questo cambio di paradigma?
Clay Shirky, nel suo libro Il Surplus Cognitivo – che forse avrete letto – racconta un episodio molto significativo che ha come protagonista la figlioletta di sei anni di un suo amico. I due sono seduti sul divano, davanti alla tv…ad un certo punto la bambina si alza e corre dietro il televisore. Il padre, abituato ad una concezione di un certo tipo, pensa che la bambina creda che dietro il televisore ci siano effettivamente gli uomini e le donne che vede sullo schermo. La bambina cerca, rovista tra i cavi. A questo punto il padre le chiede ‘cosa cerchi? Ti sei stancata? O cerchi i personaggi?’…e la bambina ‘nono…io cerco il mouse’!.
Questo significa che non c’è più la disponibilità, da parte di una generazione, e ormai forse siamo già alla seconda, a ricevere passivamente le narrazioni audiovisive. Non vuole! Vuole o partecipare o condizionare in qualche modo, a vari livelli,le narrazioni che vengono presentate. Questo è uno shift di paradigma.
Noi nel 2010 abbiamo avuto un’annata formidabile. Abbiamo avuto l’ultimo episodio di Lost, un prodotto molto studiato perché è riuscito a cambiare il regime della fiction televisiva, coinvolgendo in molte piattaforme, pubblici disposti a consumare questo mondo in maniera diversa, in certo senso abitandolo. Abbiamo avuto anche il massimo di propensione, da parte dell’industria classica, ripeto quella determinata dal paradigma da narratore allo spettatore/ascoltatore, oneway, a senso unico, senza possibilità di risposta in tempo reale, che è, diciamo Inception, che al contempo il massimo della complessità della narrazione, ma anche il massimo della interazione psiclogica richiesta al pubblico, per cogliere la profonda stratificazione dell’universo funzionale. Ed infine abbiamo avuto Avatar , l’affermazione definitiva del 3D, il massimo – a livello produttivo – che si può permettere il paradigma classico nei confronti dello spettatore.
Quindi l’implicazione psicologica richiesta da Inception, l’esplosione percettiva di Avatar, ed infine l’inattività di Lost se fruito nella sua sola componente televisiva – mentre sempre più spettatori vogliono abitare il mondo di Lost, vogliono cominciarne a condizionare lo sviluppo – sono il massimo che il paradigma classico ci permette, non si può andare oltre. Si può migliorare incrementalmente, ma non più radicalmente.
Il cambio radicale è effettivamente nella possibilità di coinvolgimento attivo del pubblico all’interno della narrazione. E badate, non sto parlando di coinvolgimento psicologico, per cui una narrazione mi prende più o meno, sto parlando di un coinvolgimento fisico, è lì la differenza.
C’è una nuova generazione di narrazioni che puntano sin dall’inizio su questo, sulla categoria dell’interattività, cioè su come la narrazione debba farsi interattiva. I progetti che hanno questa caratteristica, e ce ne sono già di numerosi – ma non in Italia, purtroppo – vengono chiamati in vari modi, ma la formula che è più diffusa ultimamente è transmedia, progetti transmediali. Altri li chiamano multipiattaforma, ed altri crossmediali. Crossmediale in realtà si sta usando sempre più per indicare l’adattamento di uno stesso testo, di uno stesso proto testo – che può essere filmico, può essere televisivo, o un prodotto di altra natura, anche un libro – in differenti media, e cioè adattamenti progressivi, o anche contemporanei, su diversi canali mediali.
I progetti transmediali, invece, nascono fin dall’inizio per andare contestualmente e contemporaneamente su diversi media, con varie strategie narrative. Non si parla più quindi di sceneggiature e di sceneggiatori, ma di story designer, di experience designer o di story architect, perché ovviamente nel concepire una narrazione interattiva, transmediale, io devo avere chiaro a quali pubblici mi riferisco, che cosa chiedo loro, a seconda del medium in cui verranno chiamati a collaborare e devo elaborare una narrazione che abbia automaticamente dei luoghi di interfaccia con un pubblico che io vorrei coinvolgere attivamente. Per cui c’è tutta una pletora di categorie per definire questi pubblici, questi gruppi di fan. Per esempio ci sono gli street-teams, che coinvolgo in veri e propri flahs-mob, street event in cui c’è il pubblico più devoto, disposto a collaborare proattivamente alla generazione di senso all’interno di una narrazione di cui io definisco il frame, ma non definisco, non predefinisco, tutti i singoli sviluppi. Devo creare dei percorsi che producono cose. Qui la seconda categoria che diventa fondamentale, non più come nel paradigma classico una fruizione monodirezionale, un io consumo, magari insieme ad un gruppo di persone, come nella sacralità del buio in sala cinematografico, con un pubblico che più o meno conosco, o anche in eventi come le maratone in cui intere stagioni di serie televisive vengono viste in una nottata…
C’è un altro tipo di consumo per il quale il pubblico spinge e che è richiesto dagli stessi responsabili delle produzioni. Una cosa è che io vada al cinema, veda un film che mi colpisce, magari è talmente bello che in qualche modo condiziona la mia vita, incide. Faccio un’esperienza estetica e la riporto nel suo significato, per come lo traduco io, nella mia vita. Questo è quello che abbiamo fatto fino ad oggi e che per molti versi continuiamo a fare, ma la transmedialità propone non tanto di separare i due piani, quello della fruizione estetica e quello della traduzione in esperienza esistenziale di quello che io ho imparato, quanto piuttosto una esperenzialità diretta, nella quale non ci sono più – distinte fra loro – la produzione di narrazione e la vita, ma c’è la vita stessa come produzione di narrazione, l’esperienzalità diventa qualcosa che io autore devo necessariamente prevedere, inserire nelle nuove narrazioni.
Questo è qualcosa che è già avvenuto con Lost. Avete mai provato a raccontare di cosa si tratta ad una persona che non ha mai visto Lost? È impossibile, non l’apprezzerà mai…Ma cosa non apprezzerà mai? L’esperienza che ti da la visione di Lost, l’immergersi in quel mondo lì.
Heidegger distingueva due tipi di esperienze. Una è quella che possiamo comunicare: andiamo a vedere un quadro in un museo, ci colpisce, e cerchiamo di raccontare le sensazioni che ci ha dato, renderne in qualche modo l’idea, ad un nostro amico, o amica. C’era poi un altro tipo di esperienza, incondivisibile, qualcosa che va vissuto direttamente per poter essere apprezzato, per poterne capire il senso, per poterlo riportare a te stesso.
Ecco, dal punto di vista del consumo, l’esperienzialità diretta è ciò che il progetto transmediale immersivo richiede. Richiede la partecipazione attiva per poterne apprezzare il senso e la bellezza.
Di queste narrazioni, di questi progetti – perché non sono soltanto narrazioni, nel loro rimettere in discussione le forme stesse in cui abbiamo pensato fin qui il racconto finzionale – si contano ormai numerosissimi esempi. In Svezia per The Truth about Marika è stata coniata l’espressione participatory drama, in cui si metteva in scena a metà tra finzione e realtà, cioè una finzione non presentata come tale, con solo alcuni piccoli indizi, segnali, che permettavano di capire che si tratta di una rappresentazione e non della verità reale, in cui una donna scompare e si chiede al pubblico di partecipare ad una detection per scoprire cosa effettivamente sia successo a Marika. Il pioniere dei lavori transmediali è Lance Weiler, che ha ad esempio presentato Pandemia all’ultimo Sundance Film Festival, un progetto molto divertente, anche se a tematica apocalittica. Il motore narrativo è infatti un’epidemia che minaccia di invadere il mondo e il pubblico viene coinvolto a vari livelli nel reperimento di un siero che può debellare la minaccia. Funzionali allo scopo, sono stati sparsi nel mondo, ma per la grande maggioranza negli Stati Uniti, dei telefoni cellulari con numeri reinseriti, chiamando i quali si ottenevano delle indicazioni su dove reperire altri indizi necessari a trovare il siero. Il meccanismo è quello della caccia al tesoro, attivata da quella che viene definita una driving platform, in questo caso il film Pandemia, che ha in se, sin dal momento della concezione, una serie di usi possibili e di luoghi previsti per stimolare prima e soddisfare poi, il diverso grado di disponibilità ad interagire di specifici segmenti del pubblico.
Per inciso in una costruzione di questo tipo, entra in gioco un’ulteriore professionalità, quella dell’audience designer – da noi non ancora diffusa – che deve disegnare, immaginare e definire le caratteristiche dei pubblici che cerchiamo di intercettare con il nostro prodotto e i diversi livelli di partecipazione diretta da garantire a ciascuno dei diversi segmenti individuati.
Di solito viene utilizzata una rappresentazione piramidale, in cui al vertice c’è un 5% di popolazione proattiva, che materialmente, fisicamente, collabora all’avanzamento del progetto narrativo; un 20% che disponibile ad un’interazione fisica, come nel modo previsto dal progetto di Lance Weiler, ed un 70% più classicamente passivo.
Ovviamente tutto questo comporta la necessità di ridefinire le modalità di rilevazione dell’audience. Non ci basta più sapere quanta gente s’è guardata l’episodio televisivo di Lost, ci interessa sapere quali sono le strategie ed i percorsi fruitivi dei diversi pubblici che si è cercato di coinvolgere a partire dalla driving platform…
Ma questo è un altro problema, sulla quale varrà sicuramente la pena tornare in occasioni successive…»
A presto.
Cor.P
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