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Ended in 2010, Lost reached a worldwide cult status, combining a mainstream success with a fandom-like audience engagement, and representing a turning point on what a television text should be in the age of convergence Tv (or of connecting tv, or expanded tv, or tv 2.0 or whatever you want to call it).
This success was (and still is), accompanied by a plethora of academic analysis, most part of which focusing on the transmedia expansions of the tv series (the alternate reality games, the video games, the mobisodes…) making Lost one of the most investicated case study in this research area.
This post is aimed to recommend some of the most interesting (often free readable online) academic (or non academic) essays regarding Lost as an expanded television text. I find them useful for those interested in looking at Lost through a transmedial perspective and, at the same time, for those who wants to better understand several transmedia storytelling strategies and tools through the creative solutions used in Lost.
Lost in an Alternate Reality by Jason Mittell An analisys of The Lost Experience arg, seen as an instructive failure both in being an enjoyable game experience, and in giving meaningful insights into the narrative world of Lost.
A stimulating insight in the recent evolution of the audience-producer relationship viewed through The Official Lost Podcast and the sad destiny of Nikki and Paulo, most hated series’ characters.
Here you can find, in chapter 3, a comprehensive overview of every single Lost’ transmedia expansions (6 arg, mobisodes/webisodes, a web mockumentary, Lost Via Domus videogame, the Official Podcast, DVDs and merchandising…)
Di seguito il comunicato stampa di presentazione dell’evento:
Provate a realizzare una falsa rapina in banca e fallirete miseramente, non riuscirete a fare una “falsa” rapina perché realtà e finzione si mischieranno in modo irrimediabile. Jean Baudrillard usa questo esempio calzante per descrivere il simulacro: una sorta di sospensione in cui è impossibile distinguere ciò che è vero da ciò che è falso, una condizione nella quale la nostra mente è costantemente e sempre più immersa.
Esistono degli indizi – raccolti attraverso quello che vediamo, annusiamo, ascoltiamo, leggiamo sui giornali, di cui facciamo esperienza sul web – che messi insieme ci fanno immaginare alcune cose piuttosto che altre. Tutti questi indizi si compongono nella nostra mente per formare quello che sappiamo del mondo. Una conoscenza che contiene tanti vuoti che riempiamo tramite un atto performativo, creando un modello mentale delle cose che ci circondano.
Questo è il modo in cui opera il nostro cervello: una modalità che tecnicamente si definisce “transmedialità”. Uno dei problemi più attuali del design è quello di non cogliere appieno tale possibilità, di non attivare modalità performative nelle persone, trascurando la transmedialità propria del nostro cervello. La conferenza si interroga proprio sulla transmedialità e sulle forme di comunicazione avanzata come opportunità per il design, cioè la possibilità di creare non solo un oggetto – un evento, un allestimento… – ma anche di descrivere, inventare, costruire virtualmente il mondo in cui questo oggetto vive. Sempre più world building e transmedialità sono cruciali nel mondo contemporaneo nel quale i media sono ubiqui. Smartphone, tablet, internet, social network, flash mob, etichette interattive, sensori, pubblicità, messaggi: la comunicazione ubiqua, nomade e interstiziale crea continuamente indizi su ciò che è vero, desiderabile, possibile, e che noi utilizziamo per formare i nostri modelli mentali del reale.
Nel corso dell’incontro sarà anche presentata la pubblicazione digitale “Un Simulacro per il Garbage Patch State” realizzata dagli studenti del Master in Exhibit & Public Design A.A. 2013. Un mondo virtuale e verosimile costruito intorno al Garbage Patch State, lo “Stato” fondato a Parigi nella sede dell’Unesco l’11 aprile 2013 dall’artista Maria Cristina Finucci costituito dalle gigantesche 5 isole di rifiuti che vagano negli oceani. La sua prima Festa Nazionale è celebrata con una installazione dell’artista sulla piazza del museo e l’apertura della sua prima Ambasciata a cui gli studenti del Master in Exhibit & Public Design partecipano con la mostra “6 Ambasciate per il Garbage Patch” allestita all’interno del Padiglione Educazione del MAXXI.
Partecipanti: Margherita Guccione – Direttore MAXXI Architettura Cecilia Cecchini – “Sapienza” Università di Roma, Direttore del Master in “Exhibit & Public Design” Salvatore Iaconesi – AOS Art is Open Source, docente, artista, hacker Andrea Natella – Kook Agency, giornalista, esperto di comunicazione anticonvenzionale Corrado Peperoni – “Sapienza” Università di Roma, esperto di narrazioni crossmediali Oriana Persico – AOS Art is Open Source, docente, artista, esperta di comunicazione
Eccoci alla terza parte dell’intervista a Simone Arcagni, che al termine della seconda parte rifletteva su quanto oggi il consumo televisivo tradizionale – confinato al solo piccolo schermo – sia ormai da considerare di nicchia…
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Xmp: Secondo te esiste una via italiana al narrare espanso? Esistono peculiarità, specificità italiane in questo ambito?
Simone Arcagni: Non so se c’è una via italiana, so che ci sono degli esempi italiani, ma nel senso di dove nascono dal punto di vista produttivo. Ma io penso che grazie alla rete ciò che prevarrà sarà la formazione di comunità transnazionali. Cioè sarà più facile che gli amanti della fantascienza creino le loro comunità ed i loro prodotti, in maniera del tutto indipendente dalla provenienza di ciascuno dei membri. In altri termini penso a comunità di interessi, in cui non so quanto possa emergere o svilupparsi una specificità italiana. Comunque nel campo delle webseries e dei webdocumentari non siamo messi male, anzi facciamo molte cose interessanti e vinciamo molti premi internazionali. Io faccio l’esempio delle webseries perché le ritengo, anche quando vivono ‘solo’ in rete, crossmediali ab origine…Se io realizzo gli episodi, li distribuisco su youtube, creo pagine dedicate su Facebook o su Twitter, anche se si tratta di una produzione monocanale – ma youtube lo definirei un transcanale – è pur sempre vero che quel tipo di prodotto nasce proprio per essere sparso, condiviso…la spreadability di cui parla Jenkins. Lo spettatore – commentando, taggando e rilanciando in mille altre maniere – fa muovere quel testo è lo fa navigare da altre parti. Quindi per me una webserie o un webdocumentario sono intrinsecamente transmediali, anche se a volte la loro portata transmediale è limitata dal fatto che ci sono pochi fan.
Xmp: Quindi, se volessimo sintetizzare, la vera peculiarità di questi formati narrativi non è (o fra poco non sarà più) la loro distribuzione su più canali mediali ma la partecipazione, la collettivizzazione, la spreadability…
Simone Arcagni: Secondo me sì, ovviamente con gradi diversi. In un programma come RaiTunes è certamente più presente, ma anche in una webserie come Freaks, che poi diventa un dvd e anche un libro…chiaramente ci sono differenze, ma al contempo è evidente che se realizzo un prodotto per internet, pensandolo da subito immerso nell’ambiente dei social network, la sua caratteristica decisiva diventa proprio la spreadability, il nascere per essere fruito in tempi diversi, con modalità diverse, su device diversi e con un tipo partecipazione, di interazione, diversa…dal minimo del commento al massimo dell’interattività in senso stretto.
Un altro esempio italiano interessante, di tutto altro genere, è Tutto parla di te, film di Alina Marazzi. La produzione del film ha deciso di affiancargli un webdoc crossmediale che partiva dal lungometraggio e ne usciva per andare verso le esperienze che il pubblico decideva di condividere. Si chiamava Tutto parla di voi, ed era creato con un insieme di video postati da persone che raccontano la loro esperienza personale rispetto alla depressione post-partum, argomento centrale del film. Quindi a partire da un lungometraggio cinematografico si crea un web documentario partecipativo, in cui l’elemento social diventa snodo vitale. Non solo. Ad ospitare e a finanziare il documentario è arrivato Il Fatto Quotidiano, cioè un quotidiano che ha bisogno di contenuti, di informazioni, in questo caso legate ad un reportage, un ottimo reportage partecipato. Quindi ci troviamo di fronte ad un lungometraggio cinematografico che, attraverso le estensioni sul web ed il sostegno di una testata giornalistica, diventa un mondo partecipato e partecipante.
Un altro esempio nostrano, ancora molto diverso, è quello di Dylan Dog, di cui Luca Vecchi, Claudio Di Biagio e Matteo Bruno stanno facendo una webseries. La serie nasce dal fatto che ogni volta che l’eroe della Bonelli è stato trasposto al cinema, i risultati sono stati risibili…Vecchi e Di Biagio, ottimi professionisti e fan dichiarati dell’indagatore dell’incubo, hanno perciò deciso di provare a ricrearne in video una versione filologicamente corretta. Per finanziare l’operazione i due lanciano un crowdfunding, in cui si presentano proprio come fan che vogliono rendere giustizia filologica al loro eroe, e che per questo chiedono al pubblico non solo il supporto finanziario, ma anche suggerimenti su cosa non può mancare nella serie…e quindi il crowdfunding diventa anche crowdsourcing, perché le sceneggiature vengono costruite tenendo conto dei suggerimenti di chi partecipa al finanziamento e perché alcuni ruoli tecnici nella troupe verranno coperti proprio da soggetti che si sono autocandidati spontaneamente online.
Xmp: Quindi possiamo dire che in questi contesti si inverte il flusso tradizionale: prima si trova un pubblico disposto a pagare, per un prodotto che verrà realizzato solo ex post…
Simone Arcagni: Sì, in effetti questa serie non l’ha vista nessuno, perché ancora non esiste, ma nei social network, nel passaparola digitale, è come se già esistesse a tutti gli effetti.
Xmp: Scenari di questo tipo offrono nuove e maggiori possibilità agli indipendenti?
Simone Arcagni: Sì sicuramente. A Roma si è da poco tenuto il primo meeting di video maker, produttori e sceneggiatori di webseries. L’obiettivo prioritario è quello di fare gruppo e aumentare la possibilità di espandersi sul mercato: in altri termini rimanere indipendenti, rendendosi però più solidi federandosi.
Xmp: Esistono professionisti italiani che si stanno mettendo in luce in questo ambito?
Simone Arcagni: Diciamo che Riccardo Staglianò e tutta l’academy di Repubblica che si occupa dei web documentari, di prodotti pensati per diventare in parte video, in parte testo, in parte mappa, in parte gallery fotografica e mille altre cose, hanno svolto e stanno svolgendo un ruolo centrale, tentando percorsi che altri in Italia ancora non esplorano.
L’altro nome, che ho già citato, è quello di Mariano Equizzi, ma qui parliamo veramente di nicchia. Ma è il personaggio che più di tutti sta cercando di sperimentare tutte le forme, tutti i modi, tutte le tecnologie che permettono l’apertura del racconto non lineare.
Aggiungerei poi Luca De Biase, un nome che è un po’ fuori da questo contesto audiovisivo ma che è tra i pochi giornalisti italiani che lavora incessantemente da anni per la costruzione di piattaforme convergenti della notizia. È lui che ha avuto l’idea di Nova24 e quella di Nova100, cioè di 100 blog di blogger selezionati, le cui notizie possono confluire nel quotidiano. Ed ora con il Nova cartaceo ha fatto il primo giornale cartaceo aumentato, senza il QrCode. Ci sono alcuni articoli estesi, e poi inquadrando alcune foto con lo smartphone, dopo aver scaricato l’applicazione gratuita, si può accedere a molti contenuti ulteriori, testi, foto, video. Si crea cioè una piattaforma trans narrativa del giornalismo. Lui quindi, a partire da contesto informativo e giornalistico, ha davvero una visione transmediale del modo di generare e far circolare testi.
Nel mondo delle webseries ho già citato Claudio Di Biagio – che era tra i protagonisti di Freaks e collabora con i Manetti Bros – e Luca Vecchi, che aveva anche realizzato The Pills. Secondo me hanno idee interessanti, sanno costruire mondi narrativi e sanno che poi li devono andare a collegare con molte cose diverse. Loro, così come il gruppo che ruota intorno alla TheJackal, rappresentano davvero una nuova generazione di sceneggiatori e video maker, che sanno che non devono costruire ‘il film’, chiuso, monotestuale…ma qualcosa di diverso…
Xmp: Rispetto a quanto riportato da alcuni degli altri intervistati, dipingi un quadro piuttosto vivace, e con prospettive che lasciano ben sperare per il narrare espanso italiano. Quello che sembra carente è il mainstream…perché? Deriva da una carenza di budget e/o di teste adatte a questi nuovi scenari narrativi?
Simone Arcagni: Secondo me le teste ci sono. Il mio lavoro mi porta in contatto con un mondo di persone che pensa le cose in maniera agile, aperta, innovativa…andrebbero probabilmente supportate meglio, non necessariamente in termini di finanziamento, ma di piattaforme, eventi, occasioni che aumentino la possibilità di mettersi in luce; bisognerebbe provare a farli giocare con qualcosa di più costoso, magari facendogli fare qualche fiction tv…più che il soldo in se, sarebbe bello avere un sistema produttivo che avesse voglia di integrare queste teste, offrirgli delle chance… certo offrire delle chance nella maggior parte dei casi significa anche metterci dei soldi, ma non è l’unico elemento. In fondo se queste persone riescono a fare delle webserie viste e premiate in tutto il mondo, facendosele a casa loro con i loro risparmi…vuol dire che riescono a mettere insieme più risorse economiche loro di quanto ne metterebbero Rai e Mediaset? Non lo penso… evidentemente il problema non è (solo) economico. Serve un cambio di politica, di strategia. Prima dello stanziamento dei soldi si deve acquisire la consapevolezza che ‘questo è un settore che ci interessa, un settore che vogliamo vendere ai pubblicitari’…Io comunque sono abbastanza ottimista, forse ho un osservatorio privilegiato ma vedo veramente molte persone in gamba che fanno cose molto belle…
L’ho fatto poco più di una settimana fa, ma torno a segnalare alcuni post che forniscono interessanti riflessioni sul rapporto tra gaming e storytelling, e più specificamente sullo stato dell’arte e sulle prospettive future di questo rapporto, dopo un 2013 che per molti esperti del settore è stato un anno di rilevanti innovazioni nell’utilizzo del medium videoludico come storytelling medium.
1 – In realtà il primo degli articoli che segnalo – Lucas and Spielberg on storytelling in games: ‘it’s not going to be Shakespeare’, apparso su Verge il giugno scorso – riporta due posizioni piuttosto scettiche, di due mostri sacri di Hollywood, sulla capacità attuale e futura dei videogiochi di raccontare storie che catturino emotivamente il pubblico. Secondo George Lucas perchè una storia funzioni davvero, non si può non lasciare il comando delle operazioni all’autore:
Telling a story, it’s a very complicated process. You’re leading the audience along. You are showing them things. Giving them insights. It’s a very complicated construct and very carefully put together. If you just let everybody go in and do whatever they want then it’s not a story anymore. It’s simply a game.
Anche Steven Spielberg sottolinea alcune inconciliabili differenze tra media interattivi e media narrativi:
“I think the key divide between interactive media and the narrative media that we do is the difficulty in opening up an empathic pathway between the gamer and the character — as differentiated from the audience and the characters in a movie or a television show”. He described an early game in which players rescued babies being thrown from a burning building — likely a reference to Bouncing Babies or some variant thereof. “That idea came from an urge of a gamer to say, ‘Let’s create an empathic experience for a player to save babies.’ Who’s more helpless than a baby thrown into the air, heading for the ground? You gotta catch the baby,” he said.
“But as players started to play the game they stopped looking at the baby as a human being and they started looking at the baby as a score… So they were looking at the numbers they were racking up, and the baby became parenthetical to the calculation in scoring more points than your friends and being able to brag about it at school the next day.
Even games with elaborate cutscenes and interstitials face the problem, he said. “You watch, and you get kind of involved with what the story is, and you hate the bad guy because he murders people in an airport and stuff like that, and then all of a sudden it’s time to take the controller,” Spielberg said. “And the second you get the controller something turns off in the heart. And it becomes a sport.”
The great thing with our medium is that it’s not beholden to any specific length. ‘Consumer demand’ is just kind of an arbitrary thing: when people buy a game for $60 they expect a certain amount of hours. But we’re moving away from that now. We can charge what we want for a game and release it through all sorts of digital distribution models, so if you want to tell a short story you can, and if you want to tell an epic story you can.
Neil sottolinea inoltre un aspetto molto interessante, apparentemente paradossale. A suo avviso, pur non essendo il videogioco un medium intrinsecamente narrativo, a volte quello che vi viene raccontato è in eccesso, mentre sarebbe preferibile lavorare in sottrazione:
In games we tend to say too much. We over explain things and use too much dialogue. We don’t leave enough to the imagination of the player as far as storytelling, about who this character is and what happened in this world, and I think that’s such a wonderful storytelling tool, especially in interactivity where you can kind of pick and choose what you’re looking at or interacting with, where the player can fill in the gaps. No matter what your game is, less is more is always a good approach.
4 –In Video game storytelling: The real problems and the real solutions – apparso sulle pagine di GamesRadar – Adrian Chmielarz cofondatore e chief game designer di The Astronauts, game factory indipendente polacca, che con il videogioco The Vanishing of Ethan Carter dimostra di puntare molto sul rilievo della storia all’interno dei videogiochi, sottolinea quanto sia fondamentale cercare una naturale integrazione tra gli elementi interattivi e quelli più propriamente narrativi di un videogame:
We’ve nailed the engagement part of games – Who hasn’t played Tetris for too long? – but once people felt it was better to put some context to all these mechanics, the Pandora’s box was opened. The more story-telling we inserted into games, the more it clashed with the gameplay part. The more believable the worlds and their characters, the less we could tolerate the gaminess of it. Suddenly it felt weird that the hero we believe in operates in a world that features health packs around every corner. And this is where we are right now, trying to figure out how to preserve what makes games games – interaction, engagement, agency – and through these mechanisms tell stories we believe in and create worlds we can escape to.
We have player/character empathy, ludonarrative consistency, player agency, sense of presence, immersion, engagement – and they all interact with each other and influence each other. And the Holy Grail is for all of them to sing in harmony. For example, if I fully empathize with the protagonist and this is, indeed, my alter ago in a game, but there’s just nothing interesting do, all that empathy means nothing. And vice versa, if there’s tons of interesting activities, but they are all about slaughtering innocents, this may create a dissonance that makes me uncomfortable and thus unable to enjoy the game.
It’s all important, there should be no compromises here. Don’t serve a great food on a dirty plate.
[…] If we’re talking about games that want to offer a broad spectrum of emotions, then my answer is that the gameplay and the story should be indistinguishable one from another. Tell me a story through gameplay, or let the gameplay tell a story. However you want to look at it
Analoga la posizione espressa in merito da Tali GoldStein, tra gli autori di Papo and Yo per la Minority Media, che sottolinea come i videogame dovrebbero trovare una propria via, propri strumenti per raccontare storie, come il cinema ha fatto a suo tempo, ad esempio, con il montaggio:
I don’t have anything against cutscenes, because there are times you need context. It’s not a problem. We actually use a little bit of that. But we cannot bring you in and out of the story just to explain something, and make you role-play. Sometimes it’s not about deriving meaning and how you should feel in a 10-second cinematic. It’s actually about empowering you through mechanics to feel like that.
Rather, both elements must be created as part of one unified process. Goldstein explains further, “They hug each other. I tend to say that aesthetics, story and mechanics need to come together. If they don’t, we are not doing our job correctly. For us, it’s very important to have a subject that we relate to… After that we need to find how we want to tell the story, and then there’s the mechanics and the aesthetics. Because one thing doesn’t go without the other.
5 – In un’intervista lascia al NewYorker – On Video Games and Storytelling: An Interview with Tom Bissell – writer con Rob Auten di Gears of war: Judgement dice la sua sull’utilizzo dei videogame come storytelling media, portando ad esempio l’acclamatissimo The Walking Dead, che pur in un contesto horror, non è uno shooter, concentrandosi soprattutto sulla costruzione di un dialogo, di una relazione, tra i due protagonisti:
People are doing genuinely cool stuff with games as a storytelling medium right now. There’s this eerily affecting game out from Telltale Games called The Walking Dead—the game version of the TV series. Obviously it’s got zombies, and so it’s both incredibly violent and upsetting, but, unlike most zombie games, you’re not just constantly pulling the trigger. It’s not a shooter. In fact, it’s using the devices of one of the purer, more literary game genres out there: the old-school, point-and-click adventure game. You walk around static environments, looking at stuff, picking stuff up, and talking to people. That’s really what the game is about: talking to people, forming relationships. The relationship between the two main characters (a disgraced black academic and a little girl) is genuinely affecting.
Bissell sottolinea anche quanto chi si occupa dello storytelling in un videogioco abbia pochissimo controllo sul tempo con cui questa storia verra fruità dal pubblico, condizione che tra i medium tradizionali trova qualche similitudine nei libri:
This is the really tricky thing with game writing: you have very limited control over the pace of the player’s experience. A movie or a TV show is designed to be finished in one sitting, so the stories structure themselves around the reasonable expectation that the person watching isn’t going to stop in the middle of it. Games tend to be, what? Seven hours, sometimes even thirty-five hours long? That makes the stories much harder to structure because you can’t control the way the player is going to experience them.
Think about this, though: What other kind of other storytelling experiences does what I describe above remind you of? It reminds me, at least, of how we read books. You read for a while, but then your subway stop comes, and you stop. Or you read before you sleep. Or read in the waiting room at the orthopedist’s. There’s a grab-it-while-you-can story imperative with both books and games. Also, both have to be interesting on a moment-to-moment basis. However, game stories, unlike the kinds of stories you find in books, need to be a lot simpler. Video games generally don’t reward narrative complexity, because most of them are about going somewhere and doing something, and then going to another, similar place and doing a similar thing. In that sense, the story is sort of there to make you forget that what you’re doing is actually incredibly repetitive.
6 – Da ultimo l’articolo di Wired su The Novelist, interessante perchè dedicato ad un videogioco in cui il tentativo di integrazione tra narrazione e meccaniche videoludiche si è rivelato poco riuscito…in altri termini qui potrete leggere gli errori da evitare se volete raccontare una storia attraverso un videogioco…
…come ho già detto in altri post, il crescente successo di formati narrativi distribuiti ha ragioni sociali, tecnologiche ed economiche…su questo ultimo aspetto, alle infografiche postate qualche mese fa, aggiungo quelle pubblicate da frugaldad.com e da mediachannel nel 2011…pur se datate, descrivono (soprattutto la prima delle due) in maniera tuttora validissima la progressiva concentrazione dell’industria mediale statunitense in poche major (ma il discorso è valido a livello globale). Per questi grandi gruppi la scelta di declinare i propri prodotti su più canali distributivi è quella più naturale. Ovviamente questo lato mainstream delle narrazioni distribuite convive, e continuerà a farlo, con quello indipendente rappresentato – ad esempio – da prodotti di intrattenimento come El Cosmonauta, o da progetti che mirano ad un impatto sociale, come Sandy Storyline o Land of Opportunity.