Soaps in Transmedia (1)


…Giada Da Ros, di cui potete leggere una breve bio nelle righe sottostanti,  si è recentemente occupata di soap opera nel volume The Survival of the Soap Opera: Trasformations for a New Media Era (University Press of Mississippi, 2010).
Le ho chiesto di contribuire a CrossmediaPeppers con una panoramica in ‘salsa transmediale’ di questo genere televisivo. Ne è uscito fuori un pezzo molto interessante, che analizza uno dei generi fondativi della grande serialità televisiva da una prospettiva piuttosto originale. Ma non sta a me giudicare, quindi non mi dilungo oltre, e lascio subito la parola a Giada. Buona lettura!
English Abstract 

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Giada Da Ros è giornalista pubblicista, collabora da 20 anni con Il Popolo, dove ha una rubrica fissa di presentazione-commento-critica di programmi TV e ha un suo blog, Telesofia, dedicato alle stesse tematiche. Ha scritto su Buffy in Slayage (Issue 13-14), su Una mamma per amica in Screwball Television: Critical Perspectives on Gilmore Girls (Syracuse University Press, 2010), su Queer As Folk, Lost, The L Word, The Vampire Diaries, Tutti pazzi per amore in Ol3Media, rivista accademica online di Cinema, Televisione e Media Studies del Master Cine&TV dell’Università Roma Tre, di cui è co-redattrice dal 2010. Ha anche contribuito a The Survival of the Soap Opera: Transformations for a New Media Era (University Press of Mississippi, 2010) e ha in uscita un saggio su Glee in un volume di prossima pubblicazione per McFarland.

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Per una panoramica in ottica transmediale sulle soap opera americane del daytime è utile prendere le mosse dalle caratteristiche peculiari del genere e del suo ciclo di vita: le soap sono nate, hanno avuto molto successo, e sembra che ora stiano morendo. Questa evoluzione, declinata nello specifico del rapporto  tra soap e transmedialità, consente di individuare tre fasi distinte:

– le origini: le soap in fondo sono nate come esperimento crossmediale, nella loro fase di transito dalla radio alla TV;
– il periodo del gran successo, nel corso del quale venivano garantite ai fan opportunità di fruizione espansa, per nutrirne l’appetito e ricavarne un profitto economico aggiuntivo;
– il declino dei tempi attuali, in cui l’utilizzo di tecniche e di strumenti transmediali è molto più massiccio ed essenzialmente finalizzato ad un tentativo di sopravvivenza.

Quanto invece alle caratteristiche dello specifico genere televisivo, sotto molti aspetti comportano sfide peculiari. Le soap operas sono infatti demanding, esigenti e impegnative.  Seguirle significa dedicar loro, con notevole costanza, una gran quantità di tempo (5 volte a settimana). Allo stesso tempo è praticamente impossibile assistere a tutto quello che viene mandato in onda, il che lascia ampi spazi di manovra per “riempire” il tessuto affabulatorio.

Si sente spesso dire che per capire una soap opera ci vogliano almeno sei mesi di tempo. Inizialmente lo spettatore ha solo una conoscenza superficiale degli accadimenti in corso, che acquisiscono un  significato più ‘pieno’ solo attraverso una fruizione più duratura, approfondita e costante. Come messo in evidenza da Robert C. Allen nel suo Speaking of Soap Operas, il piacere che gli spettatori di soap inseguono non è nel percorso sintagmatico, ovvero nella trama, negli eventi, che sono spesso ripetitivi o appaiono tali allo spettatore casuale, ma nel percorso paradigmatico, nel significato relazionale che quegli stessi eventi assumono, e nella diversa reazione che provocano nei diversi personaggi che vi sono coinvolti.

Ciò che per lo spettatore non iniziato è noioso e uguale a se stesso, per il fan diventa fonte di piacere. Le convenzioni stilistiche e narrative di questo genere sono come la metrica per alcune forme di poesia: ciò che la rendono allo stesso tempo ostica e bella. Queste stesse convenzioni, essendo molto forti, rendono il genere ermetico: è difficile entrarci come pure uscirne, il che rende ancor più complicato fruire del programma su canali diversi da quelli per cui è stato originariamente pensato, circostanza che ha fin qui costituito un ostacolo specifico all’applicazione di tecniche proprie  del transmedia storytelling che, pur ripetutamente sperimentate, non hanno avuto di fatto molta fortuna.

In effetti nelle soap si sono spesso verificati, anche con discreto successo, esempi di crossover, di reciproca impollinazione tra serie diverse. Anche per le fan fiction si è registrata una coinvolta partecipazione dell’audience (del resto i fan delle soap sono riconosciuti come tra i più attivi che ci siano in questo senso). Quando però ci si trasferisce all’interno del canone, alla ricerca di tentativi ufficiali di ampliare la narrazione su piattaforme differenti da quella originaria, quando insomma ci si pone in un’ottica di transmedialità narrativa intesa, con Henry Jenkins, come sistematica declinazione della storia, su “piattaforme mediali multiple, ciascuna delle quali dà il proprio specifico contributo all’intero”, diventa più difficile trovare esempi di successo legati al genere soap…ma proviamo ad andare per ordine…

Le origini: Le soap opera, osservate ai loro albori, possono essere considerate un esempio ante litteram e sui generis di narrazione crossmediale. Prima di diventare televisive ed essere associate – tra il grande pubblico – esclusivamente a questo medium, le soap del daytime erano infatti radiofoniche. Solitamente si fa coincidere la nascita del genere, negli USA, con l’esordio di Painted Dreams, avvenuto sulle frequenze della stazione radio WGN il 20 ottobre 1930. La serie, andata in onda fino al luglio del 1943, venne ideata da una pioniera del genere, Irna Phillips, che avrebbe in seguito realizzato, fra le altre, The Guiding Light, (Sentieri in italiano). Altri retrodatano la nascita del genere a Clara, Lu and Em, il cui debutto radiofonico, avvenuto il 13 giugno 1930, inizialmente in orario serale e solo in seguito in fascia di daytime, era in realtà stato preceduto da quello sulla carta stampata, in una striscia a fumetti in cui venivano narrate le vicende delle tre donne del titolo. A questi due titoli, negli anni Trenta e Quaranta ne sono seguiti numerosissimi altri, di grandissimo successo, attualmente solo in parte recuperabili in CD da collezione.

Poi, all’inizio degli anni Cinquanta, il crescente successo della televisione crea nel mondo delle soap due tensioni contrapposte. Da un lato una spinta all’innovazione, che puntava ad una migrazione transmediale ante litteram, dalla radiofonia al piccolo schermo. In questo senso possiamo ricordare i titoli di Young Doctor Malone e The Road to Life, The Brighter Day e appunto Sentieri, per le quali il passaggio dalle onde radio all’etere avvenne senza soluzione di continuità nel flusso narrativo, condizione che ci permette di parlare – appunto – di una migrazione transmediale delle storie raccontate in queste serie. Dal punto di vista economico questo salto transmediale ha spesso trovato l’appoggio più convinto da sponsor come la Procter & Gamble e Colgate-Palmolive, ma  del resto il sostegno di case produttrici di prodotti per l’igiene domestica e personale – è ben noto – è stato l’elemento da cui il genere ha preso il suo nome (per una deliziosa panoramica sull’evoluzione del marketing P&G dalle soap operas a twitter vi rimando a questo articolo).

Al contempo, soprattutto da parte degli autori, si registrò una certa resistenza all’opportunità di trasferire le serie da un medium all’altro. Le soap radiofoniche erano pensate come programmi per le casalinghe, che potevano seguirle mentre erano impegnate nei lavori domestici. La possibilità di aggiungere il video, e quindi la necessità di focalizzare l’attenzione su uno schermo invece che sulle proprie faccende domestiche, veniva vista con qualche preoccupazione. Per questo motivo Sentieri (ma il discorso vale anche per The Brighter Day) debuttò in TV nel 1952, ma per i primi anni (fino al 1956) rimase in onda anche alla radio. Gli attori all’epoca recitavano live, non venivano pre-registrati. In questo caso, quindi, recitavano le proprie parti due volte, una  per la radio e una per la TV.

Così, anche se l’avvento della televisione garantiva nuove possibilità narrative al genere, la scelta fu quella di mantenersi fedeli agli stilemi radiofonici: «live, episodi quotidiani di 15 minuti, un annunciatore non visibile con voce fuori campo per introdurre e chiudere ogni episodio, musica d’organo per fornire un tema e punteggiare i momenti più drammatici, e ciascun episodio che finiva con un momento narrativo irrisolto, con un finale  ‘cliffhanger’ di venerdì, per motivare il pubblico a tornare il lunedì» (The Museum of Broadcast Communications).

Tutto questo non ha però impedito che, per gli inizi degli anni Sessanta, il passaggio delle soap dalla radio alla TV fosse definitivo, con la pressoché completa scomparsa di quelle radiofoniche…

Ma di questo parlerò nella seconda parte.
A presto.

Giada Da Ros

4 Risposte

  1. Wow! Interessantissimo articolo pieno di spunti per la mia intervista con chi sai tu, Giada!! Sono impaziente di leggere il seguito! Complimenti di nuovo, Giada!
    Pier

  2. Grazie Pier. :o) Segnala pure il post a chi-sai-tu. Noi magari provvederemo con almeno un abstract in inglese.

  3. […] pezzo di Giada Da Ros sulle Soaps in Transmedia…per chi se la fosse persa, qui c’è la prima parte. Buona […]

  4. […] chi se le fosse perse, qui ci sono la prima, la seconda e la terza parte. Buona […]

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