…il settore dei media studies è sempre più caratterizzato da un proliferare di termini, di etichette lessicali che in alcuni casi hanno effettivamente la capacità di individuare in maniera sintetica, puntuale ed efficace concetti degni di attenzione, rivelandosi strumenti cognitivi utili allo studio e all’approfondimento delle tematiche indagate. Ma in altri casi la sensazione è che queste etichette vengano ideate solo per attirare l’attenzione, issando nuove, sgargianti, bandierine lessicali dietro le quali non si celano rilevanti contributi scientifici; un tentativo di distinguersi senza però che ci siano differenze significative in quello che si mira a portare all’attenzione della comunità scientifica. Una sorta di auto-branding accademico da parte dei diversi ricercatori, che coniano nuove nomenclature augurandosi che diventino buzzword a cui la rete regali una diffusione planetaria ed una fortuna di non breve durata.
Del resto anche in questo ambito l’efficacia comunicativa è un requisito fondamentale, perchè una ricerca scientifica che da buoni frutti, ma non è comunicata e diffusa in maniera efficace, rimane qualcosa di fondamentalmente sterile, inutile. Quello che non dovrebbe mai accadere è che la rincorsa al neologismo classificatorio nasconda, trattandosi di ricerca accademica, una sostanziale povertà di contenuti.
In questa nuova serie di post, intitolata Keywords, fornirò una breve panoramica di alcune parole chiave che è utile conoscere se ci si vuole occupare di transmedia storytelling o, più in generale, di narrare espanso. Visto quanto scritto appena sopra, l’intenzione è ovviamente quella di concentrarmi su quei termini dietro i quali si celano effettivamente prospettive e/o contenuti innovativi, capaci di stimolare le riflessioni ed il dibattito intorno ai temi del narrare espanso…
Fatta questa premessa, passo subito alla prima delle Keywords: Overdesign.
Nel marzo 2013 è uscito Media Franchising.Creative License and Collaboration in the Culture Industries di Derek Johnson (da cui provengono le citazioni presenti nel seguito del post), un volume a mio avviso fondamentale per chi sia interessato ad approfondire gli aspetti economico produttivi dei franchise mediali, prodotti che qui interessano perchè fanno del narrare espanso la loro cifra ricorrente.
Uno dei concetti fondamentali che nel libro vengono definiti ed approfonditi da Derek Johnson è quello di overdesign. Si tratta della pratica, molto diffusa nello sviluppo di franchise mediali, di disegnare, progettare, strutturare, anche in maniera estremamente dettagliata, molteplici elementi che compongono l’universo finzionale ma che non necessariamente verranno mostrati direttamente al pubblico. Disegnare in eccesso, componenti destinati a rimanere dietro le quinte, ma fondamentali per dare spessore, solidità ed alte potenzialità di sviluppo futuro, agli elementi destinati invece ad andare in scena.
In concreto l’overdesign si realizza spesso attraverso la produzione di documentazione che diventa fondamento e guida per ogni espansione futura del franchise, strumento di garanzia per la coerenza e continuità interna del prodotto. Johnson esemplifica efficacemente il concetto di overdesign facendo riferimento a Star Trek, tra i primi franchise dell’industria dell’intrattenimento mediale:
From the start of production in the 1960s, the world of Star Trek was designed according to systemic narrative principle governing how subsequent writers could use elements of the world across episodes. “Star Trek: Notes, Questions on Art and Design”, written in 1964 by series creator Gene Roddenberry prior to production of the first pilot, laid out in great detail all the fictional technologies and scientific systems to be featured in the series, including basic rules for the exploration of outer space; functional explanations for various stations on the bridge; and descriptions of landing party gear (including uniforms, communicators, laser guns). A similar document later drafted for the series Writer’s Guide briefed storytellers on the scientific theory behind the practicality of phasers, transporters, deflectors, sensors, shuttles, tractor beams, computer, universal translators, and subspace radio signals.Although few of these technical details would be included in scripts […] , the world was overdesigned in detail what appeared on screen.
Quindi strumenti di lavoro in qualche modo apparentati alle bibbie, che garantiscono la continuità e la coerenza soprattutto di prodotti seriali, tipicamente televisivi. In questo caso, tuttavia, il focus è meno sui personaggi e più sullo spazio, sul mondo in cui avverrà la narrazione, che diviene un
creative contexts that could support the emergent production and elaboration of further content. As creative structures, these worlds generated content through ongoing use ad reuse.
Come detto l’overdesign presuppone la definizione estremamente dettagliata di aspetti dell’universo finzionale che non necessariamente si paleseranno in prodotti destinati al pubblico, ma che saranno tuttavia di fondamentale utilità per garantire la coerenza complessiva del franchise nel corso del suo ciclo di vita. In altri termini il fine dell’overdesign è rendere l’apparato narrativo pre-disposto, abilitato, a sostenere espansioni future…renderlo franchise-ready.
Johnson porta ad ulteriore sostegno della sua concettualizzazione la testimonianza di Ronald Moore, alla fine degli anni Ottanta editor per la serie Star Trek: The Next Generation, e poi, nei primi anni del nuovo millennio, responsabile dello sviluppo di Battlestar Galactica. Proprio con riferimento alle tecniche di worldbuilding utilizzate per questa serie, Moore utilizza il termini texture, per rendere l’idea di elementi che non necessariamente mutano in maniera decisiva gli aspetti visibili, la superficie, della serie, ma che sono fondamentali per conferire a quella stessa superficie una trama, una consistenza capace di reggere il peso di progressioni narrative ben più ampie di quelle che si ha in programma di realizzare nel breve periodo. Ed in questo senso oltre alla produzione di bibbie come quella di Star Trek pocanzi citata, il cui focus è più direttamente legato allo script, un ruolo rilevante lo ricoprono anche la scenografia ed in genere tutti gli aspetti legati al visual design del prodotto, come pure alla colonna sonora, fino alla definizione – soprattutto per prodotti che si muovono in ambito fantascientifico – di una vera e propria cultura delle popolazioni che abitano l’universo finzionale che si descrive. Ad esempio, come già citato su queste pagine, attraverso la creazione di lingue artificiali o attraverso la dettagliata rappresentazione della moda, degli stili di vita, come avviene per la trasposizione cinematografica di The Hunger Games con il fashion webmagazine Capitol Couture.
In questi casi specifici però quel disegnare in eccesso descritto da Derek Johnson non rimane dietro le quinte, in una documentazione di lavoro ad uso dei responsabili dello sviluppo del franchise, ma diventa esso stesso prodotto finale, seppure esterno alla dorsale narrativa principale. E forse è proprio questa differenza che permette di individuare una sottilissima ed assai permeabile linea di confine tra due concetti profondamente legati tra loro: quello di worldbuilding e quello, appunto, di overdesign…
In conclusione per Derek Johnson l’overdesign è ciò che garantisce ad un franchise quella solidità, quello spessore, necessario a sostenere la lunga durata temporale e l’ampio sviluppo multipiattaforma tipico di prodotti mediali organizzati secondo la logica del franchising.
Quello che va sottolineato è che franchise e transmedia storytelling non sono due concetti sovrapponibili…il secondo è un sottoinsieme, una specifica modalità di declinazione del primo. In altri termini franchise è concetto più generale, come spiega lo stesso Johnson in una recente intervista rilasciata ad Henry Jenkins:
It’s often very appropriate to talk about franchising in terms of transmedia storytelling, but […] I felt that transmedia storytelling represented a kind of aesthetically ideal case of franchising, where every element is designed to work together in a coordinated, coherent, integral way, without elements that seem unimportant to an overarching story. […] But where I think transmedia storytelling cannot fully account for the full range of franchising is in the inherent messiness of franchising and its push away from integrated forms of collaboration. I think that all transmedia storytelling is a form of franchising, but not all franchising manages to count as transmedia storytelling. The industrial relationships of franchising across boundaries of corporation, media form, and production community lead to a resistance to the kind of collaborative creativity transmedia storytelling implies.
A presto.
Cor.P
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