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Dead Set è una miniserie inglese trasmessa da E4 e Channel4 nel 2008 e qui in Italia da Mtv, il novembre scorso. Un pilot di 45 minuti ed altri 4 episodi di circa 24 minuti per un gioiello horror.
La trama è facilmente riassumibile: i concorrenti del Big Brother, chiusi nella casa, non s’accorgono che il mondo esterno è ormai in mano agli zombie. Ma questi, dopo aver distrutto la città, arriveranno ad assediare i protagonisti del reality, che da unici superstiti, lotteranno per la sopravvivenza asserragliandosi nella casa.
In un profluvio splatter del quale dubito esistano precedenti sul piccolo schermo, la serie è puro entertainment a neuroni accesi: il sangue e le interiora in bella vista, che non possono mancare in un zombiehorror degno di questo nome, non cancellano la sarcasticamente credibile ricostruzione del dietro le quinte televisivo, a cui contribuisce la presenza, nel cast, di veri ex concorrenti del BB e della stessa presentatrice, Davina McCall (che fa bella mostra di se nella foto in alto). E se i morti viventi dell’alba Romeriana, in una coazione a ripetere, tornavano al centro commerciale, quelli di Charlie Brooker, autore di Dead Set, tornano a voler entrare nella casa del Big Brother.
Eccellente la qualità complessiva del prodotto: recitazione decisamente al di sopra di quella di molti horror per il grande schermo, ottimi effetti speciali, niente buchi di sceneggiatura ne cali di ritmo…del resto in questo caso, come già in28 giorni dopo, i morti viventi corrono velocissimi.
Ne parlo qui perchè lo ritengo un prodotto degno di nota, a mio parere superiore al ben più celebrato The Walking Dead, e non perchè esempio di narrazione crossmediale, che anzi, almeno per ora, non trova posto nel prodotto di Charlie Brooker. La serie è perfettamente compiuta, ed il sito ufficiale, dal punto di vista diegetico, non offre contenuti aggiuntivi. Ma non se ne sente la mancanza, perchè non sempre, quanto a possibilità espressive, l’espansione crossmediale è la soluzione più coinvolgente. Al riguardo trovo perfette le parole del commento di Sepsis, ultimo (ad oggi) tra quelli lasciati dai fan nel sito ufficiale della serie:
«Leave well enough alone. This was a great story, that was well casted and performed. No need for sequels, prequels, or any other such nonsense. To do so would only cheapen this fantastic production. Love it, and move on».
Anche se dal punto di vista economico può non essere la soluzione preferita dalla produzione, a volte saper mettere il punto, saperlo fare subito, è la soluzione migliore…e l’opposto del narrare crossmediale. Del resto rinunciare al transmedia storytelling non significa non offrire al pubblico occasioni di fruzione espansa, esse stesse fonti di profitti: sito web, episodi in streaming online, action figures, Dvd…
Rieccoci dopo una lunga pausa festiva…Buon 2011 a tutti, mi auguro che il Natale e l’inizio del nuovo anno siano trascorsi al meglio.
Riprendo il filo dell’approfondimento dei caratteri ricorrenti della nXm. Siamo giunti al quarto di quelli elencati nel post del 25 ottobre scorso:
Un testo crossmediale, nel suo disperdere informazioni su più canali, fornisce un set di ruoli ed obiettivi possibili al proprio pubblico: ogni spettatore può scegliersi un ruolo stanziale (decidendo quindi di non inseguire la narrazione da un medium all’altro) o un ruolo da esploratore, con tutte le gradazioni intermedie che possono esserci fra questi due approcci, tra loro antitetici.
…Come ho più volte accennato, le modalità fruitive dei contenuti veicolati dai media sono sempre più orientate, con gradazioni ed intensità diverse, ad accrescere il potenziale di coinvolgimento attivo del pubblico.
Del resto l’evoluzione in questa direzione precede di molto la diffusione del web e degli altri media digitali. Tra i molti esempi possibili, mi limito a quello della radio, che già alla fine degli anni sessanta – in una trasmissione come Chiamate Roma 3131 – permetteva al pubblico d’interagire direttamente con i conduttori, attraverso il telefono.
Gli stessi reality show, primo fra tutti il Grande Fratello, sono in un certo senso la conseguenza estrema, in ambito televisivo, di questa tendenza a amplificare gli spazi di partecipazione diretta del pubblico, che nel caso dei reality diventa esso stesso il cuore dello spettacolo.
Ciò premesso, rimane indiscutibile che la nXm, quanto a forme di fruizione partecipativa offerte alla propria audience, manifesti caratteristiche assolutamente peculiari, sia in termini di articolazione che di intensità/profondità.
In primis i diversi ruoli, più o meno attivi, che il fruitore di un franchise crossmediale può ricoprire, derivano essenzialmente dai diversi gradi di coinvolgimento con i quali può decidere di immergersi nel flusso narrativo. In questo senso la distinzione fondamentale è tra chi fruisce della storia su un solo medium, e chi invece decide di seguirne il dipanarsi nei diversi canali mediali. Questa distinzione consente di ipotizzare, per un franchise crossmediale, tre diverse tipologie di spettatore:
– Lo spettatore monotestuale: di questo tipo sarà il giocatore del videogame Prince of Persia, che decide di non andare al cinema a vederne la trasposizione in celluloide, o il lettore del primo libro della trilogia di Stieg Larsson, che non legge i volumi successivi, e men che meno si interessa alle trasposizioni su altri media;
– Lo spettatore monomediale: Ad esempio l’appassionato di 24, che vede tutti gli episodi televisivi, senza però interessarsi ai mobisodes, ai videogiochi; o ancora, il fan di Star Wars, che confina la sua passione ai lungometraggi cinematografici, senza lasciarsi coinvolgere dai libri, i videogames, le serie Tv, i fumetti della saga di George Lucas;
– Lo spettatore crossmediale: È il fan tendenzialmente onnivoro, che cerca di inseguire il franchise sui diversi media, per acquisire una conoscenza più vasta possibile dell’universo finzionale[1], fino a farsi egli stesso promotore e diffusore attivo di informazioni sul franchise fondando, solitamente insieme ad altri fan, siti, blog, forum dedicati, o realizzandone espansioni apocrife (fanfiction).
Questa classificazione ha il merito di tenere realisticamente conto del fatto che non tutti coloro che vengono a contatto con un segmento narrativo del franchise crossmediale, sono disposti a seguirne le diramazioni distribuite su altri media. Del resto gli spettatori monotestuali non seguiranno neppure tutti i segmenti distribuiti sul medesimo medium attraverso il quale sono originariamente entrati in contatto con la storia. Quella riportata è quindi una classificazione coerente con una delle caratteristiche più auspicabili della narrazione transmediale, e cioè la scelta facoltativa, lasciata allo spettatore, di migrare o meno da un medium all’altro per seguire il franchise. Tale libertà è possibile solo grazie alla costruzione di una macchina narrativa in cui ogni singolo modulo del franchise garantisca una esperienza di intrattenimento soddisfacente, anche se fruito in maniera isolata rispetto al resto dell’universo finzionale.
Nella figura che segue sintetizzo graficamente la classificazione appena descritta. Le diverse tipologie di spettatore si caratterizzeranno per una diversa conoscenza, per una diversa esplorazione dell’universo finzionale. Quindi, ovviamente, gli spettatori crossmediali saranno più prossimi ai confini dell’universo, rispetto a quelli monotestuali, che invece ne conosceranno una porzione di molto inferiore. Le freccie tratteggiate rappresentano sia la possibilità che lo spettatore monotestuale evolva nelle altre due tipologie di spettatore, sia il progressivo ampliamento dell’esplorazione dell’universo che ne consegue.
In termini più generici, le due tipologie estreme della classificazione, non sono altro che lo spettatore occasionale (spettatore monotestuale), ed il fan accanito (spettatore crossmediale), cioè da un lato quello spettatore che viene occasionalmente in contatto con il franchise, e dall’altro il fan così appassionato da risultare onnivoro, alla continua ricerca di nuovi contenuti del franchise, del quale aspira ad acquisire una conoscenza il più possibile enciclopedica.
È chiaro che per offrire un’esperienza di intrattenimento soddisfacente sia allo spettatore occasionale, sia al fan accanito, l’universo finzionale di un franchise crossmediale, deve essere fruibile a diversi livelli di approfondimento, in un’ottica di progressiva stratificazione della complessità dei contenuti. Ed è in questa stratificazione che sarà possibile offrire al pubblico quella diversità di ruoli ed obiettivi che è fondamentale per il più ampio successo del franchise. Il fan accanito si aspetta un universo narrativo complesso, particolarmente articolato, che soddisfi la voglia d’esplorazione. Lo spettatore occasionale invece vuole una storia più immediata, di rapida presa e agevole comprensione. Il fan accanito si ritiene soddisfatto nel ricavare, dalle sue migrazioni crossmediali, un piccolo, ma esclusivo, elemento di informazione in più, mentre il fan occasionale, vuole ottenere una ricompensa maggiore per lo sforzo compiuto nel seguire la narrazione in un altro canale distributivo.
Su questi aspetti tornerò successivamente ma non posso concludere questo post senza accennare al fatto che per quanto detto sin qui, la capacità fondamentale dei creativi sarà sempre più quella di trovare un sottile e preziosissimo equilibrio tra la ricompensa da riconoscere, in termini di informazioni aggiuntive ed esclusive, a chi insegue le migrazioni crossmediali del racconto, e la necessità di non abbandonare, non spiazzare lo spettatore monomediale, ne rinunciare, anche in un fase avanzata del ciclo di vita del franchise, ad attirare l’attenzione di nuovi spettatori.
A presto.
Cor.P
[1] Per questa classificazione degli spettatori di un franchise crossmediale cfr.: Scolari C.A., Transmedia Storytelling: Impliciti Consumers, Narrative Worlds and Branding in Contemporary Media Production, in International Journal of Communication, n.3, 2009, pag. 597.
L’ultima impresa cinematografica di James Cameron è un paradigmatico esempio di environmental storytelling.
Del resto, oltre a concentrarsi sulla tecnologia 3D, gran parte della campagna di comunicazione ha venduto il mondo, l’universo del film, più che le vicende ed i personaggi che nello stesso vengono presentati agli spettatori. Ed in effetti, personalmente, ricordo soprattutto l’impatto visivo e l’ambientazione nel pianeta Pandora, più che la storia in se, piuttosto tradizionale (…per molti versi riecheggia quella di Pocahontas e Balla coi lupi).
Dal punto di vista della narrazione crossmediale, ogni aspetto, ogni singolo elemento del pianeta Pandora è emerging storytelling, narrazione in potenza. Al riguardo cito una sequenza del film. Prima della battaglia finale i Na’Vi chiamano a raccolta, per combattere contro l’invasore umano, tutte le altre popolazioni che vivono sul pianeta. Nel film, e solo in questa sequenza, queste popolazioni vengono poco più che citate. É evidente che ognuna di loro è una dote narrativa che rimane a disposizione per future espansioni diegetiche, più o meno limitrofe a quella del film, da svilupparsi in altri lungometraggi, o in serie animate, serie televisive, novelization, videogiochi…
Oltre agli usi e costumi dei Na’vi ed alle altre popolazioni del pianeta, anche le specie animali e quelle vegetali, che nel film appaiono più o meno brevemente, possono essere descritte approfonditamente altrove. Ed è quello che avviene nel sito PandoraPedia, enciclopedia ufficiale del pianeta Pandora, in rete già dall’uscita del film e sua espansione crossmediale – per così dire – diegeticamente statica, in quanto offre al pubblico una descrizione dettagliata (ma potrebbe esserlo ancor di più) di Pandora ma non un avanzamento della storia raccontata nel film.
In effetti ad oggi, a quasi un anno dall’esordio del lungometraggio cinematografico, il potenziale crossmediale del franchise Avatar è stato solo marginalmente sfruttato, sia rispetto alle aperture transmediali offerte dall’universo ideato da Cameron, sia rispetto alle dichiarazioni del regista stesso, rilasciate nelle interviste concesse in prossimità dell’uscita del film.
Ma quello che mi preme ribadire è come la creazione di un mondo finzionale a 360 gradi, esplorabile in ampiezza e profondità, quale è quello concepito da Cameron, già contenga in se tutte le storie possibili. Che queste storie vengano effettivamente alla luce, e che lo facciano sullo stesso medium o su media diversi, sarà conseguenza di considerazioni artistiche ed economiche. Ma la preesistenza di un universo così articolato concede ampissime possibilità espressive ai creativi, per i quali in certo senso la sfida maggiore non sarà più trovare idee, ma piuttosto selezionarle e svilupparle nel miglior modo possibile, con il fondamentale vincolo del rispetto della coerenza interna dell’universo finzionale.
Concludo citando quello che ad oggi, oltre alla PandoraPedia, è l’altro fondamentale contenuto che affianca il lungometraggio cinematografico nel franchise Avatar: il videogioco realizzato dalla Ubisoft.
Il videogioco è un prequel del film (rispetto al quale è stato lanciato anticipatamente), in quanto cronologicamente precedente alle vicende raccontate nel lungometraggio. Può essere giocato dalla parte degli umani (RDA) e da quella dei Na’vi. Sia l’esplorazione di epoche diegetiche differenti, sia lo sviluppo di una stessa storia da soggettive diverse, sono tipiche tecniche di espansione crossmediale.
Sul videogioco Avatar, oltre alle recensioni su spaziogames.it e su multiplayer.it, segnalo questa approfondita intervista di Kevin Shortt, uno dei realizzatori, in buona parte incentrata sui legami narrativi con il film…
«… Cameron did not want the same story as the movie. He was like, “my movie’s here and I want you to give me a completely different story,” because his feeling was, Pandora’s such a rich moon and there’re so many stories that can be told there that he just couldn’t fit it all into the movie. He was just saying, “I’ve got two hours. There’s only so much I can fit into the movie. I want to be able to tell more of these stories and the game is the way to show another side of the story. […] Our story’s set two years before the movie, so we’re not conflicting with the movie’s story. It was also critical that the game doesn’t ruin the movie in any way at all, so when we were writing characters, whatever their story arc was in the movie, couldn’t be hinted at in any way.»
«…The most successful transmedia experiences are the ones where there is space for the player to live in the world. Harry Potter, Star Wars, Lord of the Rings; these are all worlds that are very much bigger than the action on the main stage.»
Sul rilievo dell’Environmental Storytelling, vi segnalo questo breve e stimolante post di Andrea Phillips.
Vi segnalo il libro The Survival of Soap Opera: Transformations for a New Media Era curato da Sam Ford, Abigail De Kosnik e C.Lee Harrington
In tutta sincerità quello delle Soap Opera non è un genere televisivo che mi appassiona particolarmente. Dal mio punto di vista il libro è però interessante per come contestualizza nell’attuale, ipertrofico, panorama mediale un genere che ai miei occhi (ripeto…di non appassionato e non esperto del genere) risulta piuttosto datato.
Così, alcuni saggi descrivono in maniera piuttosto stimolante l’irrinunciabile evoluzione che un genere come quello delle Soap Opera deve necessariamente attraversare se intende rimanere in vita in una fase in cui la fruizione espansa e la presenza online è indispensabile.
In questa prospettiva, tra gli altri segnalo i seguenti saggi:
“What the hell does TIIC mean?” Online Content and the Struggle to Save the Soaps di Elana Levine
The evolution of the Fan Video and the Influence of YouTube on the Creative Decision-Making Process for Fans di Emma F.Webb
Soap for Tomorrow: Media Fans Making Online Drama from Celebrity Gossip di Abigail De Kosnik
Soap Opera Critics and Criticism: Industry and Audience in an Era of Transformation di Denise D. Bielby
Per qualche dettaglio in più sul libro, rimando al post di Giada De Ros, unica autrice italiana presente nel volume.