Eccoci alla seconda parte dell’intervista a Giovanni Calia. La prima parte si era conclusa con Giovanni che sottolineava la necessità di creare narrazioni complesse che siano però esplorabili con percorsi di lettura semplici…
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Xmp: ‘La più grande difficoltà nella costruzione di percorsi narrativi complessi però, sta nel rendere i percorsi di lettura estremamente semplici’. Senza chiederti di svelare i trucchi del mestiere, ma…come si supera questa difficoltà?
Giovanni Calia: Ovviamente non c’è una formula magica. C’è però un modo molto semplice per capire se la strada intrapresa non è la migliore. Un modo che è tanto semplice quanto sottovalutato, spesso proprio per via delle logiche legate alle vendite o al posizionamento del prodotto: bisogna guardare le cose dalla prospettiva degli utenti, che è senz’altro la migliore per prendere certe decisioni sul prodotto. Se non si tiene sempre a mente questa ovvietà si rischia di perdere la strada giusta, rischio sempre dietro l’angolo. Fatto questo bisogna essere capaci di dire “no”, e bisogna essere capaci di farlo spesso. Altra cosa non proprio facile in talune circostanze. Il mantra da ripetersi continuamente è che non bisogna creare prodotti che assumano tutte le forme possibili, ma bisogna creare prodotti che assumano le migliori forme possibili. In questo senso la lezione di McLuhan ci aiuta a definire le linee guida su cui operare nella realizzazione di una narrazione costruita “sartorialmente” su uno specifico Medium. Non ci sono quindi delle strade o dei manuali per farlo. Ogni prodotto è diverso. E ognuno ha i suoi problemi e le sue opportunità. Il resto sta al buon senso e all’esperienza.
Xmp: Ma dovessi comunque consigliare testi che siano di ausilio per chi voglia diventare transmedia producer, o quanto meno capire di che tipo di lavoro si tratta…hai qualche libro da suggerire?
Giovanni Calia: Ne avrei così tanti che non riuscirei a fare un elenco degno di risolvere la domanda. Il punto è che le competenze da avere sono così eterogenee e multidisciplinari che bisognerebbe elencare libri che parlano di Web, di TV, di Radio, di Marketing, di Storia del cinema, di videogiochi, di design, di tecnologia, di sperimentazione tecnologica, di ricerca scientifica, di linguaggi di programmazione e così via. Onestamente? Non c’è un elenco esauriente, ma posso dirti da dove ho iniziato ad appassionarmi a tutto questo mondo: è stata tutta colpa di Howard Rheingold e di Smart Mobs, ai cui lavori ho poi dedicato la mia tesi di laurea. Da oltre 10 anni però leggo più di 400 siti al giorno e mi tengo aggiornato sulle ultime tendenze in ognuno di questi settori affiancando, quando ritengo l’autore valido, libri di approfondimento. L’unica cosa che posso consigliare è di essere lettori accaniti e di scatenare la curiosità su ogni cosa che possa essere anche solo minimamente interessante. E poi di leggere blog, di giocare, di guardare la TV, di leggere i giornali, di andare al cinema, di frequentare gli eventi, di uscire per strada e parlare con la gente e di viaggiare. Non c’è una scuola o un programma che possa essere esaustivo in questo senso.
Xmp: Esistono strumenti ad hoc per la scrittura di narrazioni transmediali? Mi riferisco ad applicativi dedicati o tecniche di lavoro consolidate…
Giovanni Calia: Io sono uno di quelli che pensa che dei 34 effetti di transizione tra le slide di Power Point, ce ne siano 33 di troppo. Il migliore strumento? Un gessetto e una lavagna o un foglio di carta molto molto grande e un set di pennarelli colorati.
Xmp: Come cambia il ruolo del pubblico di fronte a questi universi narrativi espansi?
Giovanni Calia: Di sicuro la maggior parte del pubblico è passiva e spesso non ha l’interesse di affrontare tutte le sfaccettature della storia, ad “abilitarsi” per inseguirle. E questo è molto vero quando parte del prodotto passa per la TV. La difficoltà nella creazione di universi narrativi multilivello sta nel creare un filo logico che permetta a chi non vuole interattività di non subirla, potendo limitarsi a godere la storia “madre”, che dovrebbe essere scritta in modo da soddisfare ogni elemento di curiosità. C’è però una minoranza di quello stesso pubblico che vuole interagire ed è per questa minoranza che spesso si va a svolgere ed affrontare uno specifico sottolivello narrativo. Dipende però da storia a storia. Il punto è che ogni storia ha il suo pubblico e ogni mezzo di comunicazione utilizzato ne identifica la capacità di immersione possibile. Non si parla mai quindi di pubblico. Si parla di pubblici. E identificarne tutte le sfaccettature e caratteristiche è sicuramente un lavoro difficile, ma fondamentale per potersi dare degli obiettivi da raggiungere in quello specifico segmento.
Xmp: Come cambiano le dinamiche di culto in questo contesto? L’estensione transmediale è il nuovo ‘luogo di culto’?
Giovanni Calia: La consapevolezza del “culto”, se c’è, c’è per gli addetti ai lavori. I prodotti se sono costruiti bene diventano trasparenti agli utenti e sono estremamente convinto che nella costruzione di contenuti e dinamiche di interazione complesse di questo tipo, la massima espressione si raggiunga quando tutto questo lavoro semplicemente scompare dalla testa utente. Il culto da parte dell’utente esiste a prescindere dalla tipologia di prodotto che si andrà a costruire. Esiste prima di tutto perché la storia è geniale.
Xmp: La storia è il motore di tutto. Ma si parla molto di worldbuilding storytelling…Sembra che per avviare una narrazione transmediale la costruzione di mondi sia imprescindibile. Ad esempio leggendo alcune interviste di Cameron si percepisce un afflato creazionista…ma il mondo di Avatar è molto diverso da quello di Transiti…nel primo mi sembra sia più importante lo spazio fisico, dei personaggi che lo abitano…nel secondo mi sembra avvenga il contrario
Giovanni Calia: Fai due esempi agli antipodi. Nel primo caso parliamo di fiction. Fantascienza. Nel secondo parliamo di un documentario che affronta le storie vere di persone in carne e ossa. E’ chiaro che Cameron aveva bisogno più di chiunque altro di contestualizzare la sua storia in un mondo che ha dovuto creare ad-hoc. Nel secondo caso è dal racconto che emerge il contesto. La descrizione del contesto è fondamentale e imprescindibile. Nei modelli transmediali però il concetto di mondo è oltre l’immaginazione. Prendi ad esempio l’Alternate Reality Game di Google: Ingress. La piattaforma diventa il mondo reale. Le strade, i palazzi, gli alberi e tutto quello che c’è fuori la porta di casa. L’ecosistema si evolve, il mondo reale ne costituisce la base di partenza, ma su di esso esiste il gioco, perché si aggiunge un layer digitale: si aumenta la realtà. La narrazione esiste, ovviamente, ma esiste grazie al nuovo livello digitale che l’ecosistema ha incorporato in se. Senza di esso, non potrebbe esistere la storia: la scoperta di una “materia aliena” che fornisce una nuova forma di energia. La gamification è costituita in questo caso da una scelta iniziale (stare con gli illuminati o con la Resistenza), ma è costituita anche da tanti altri livelli sui quali Google, in futuro, potrebbe costruire l’elemento di monetizzazione. Sbloccare un livello, magari recandosi in un luogo preciso con un oggetto scoperto altrove, può sbloccare un nuovo segmento narrativo…magari a pagamento. In questo caso un modello freemium (che tanto sta funzionando su piattaforme iOS e Android per i giochi mobile), è la chiave di volta per coinvolgere a tal punto da invogliare a spendere qualcosa per scoprire come evolve la storia. Chiaramente tutto questo ha dei problemi, secondo me non legati allo sviluppo della tecnologia (cosa relativamente facile), ma alla necessità di una forte definizione del livello di narrazione, capace di risolvere il problema del “costo” di partecipazione. In questo caso parliamo di tempo da mettere a disposizione, denaro per spostarsi da un luogo ad un altro, eventuali livelli in cui bisognerà possedere qualcosa per andare avanti e così via. Con questo tipo di giochi l’analisi semiotica del mondo diventa una scoperta continua e piena di fascino. Osservare i comportamenti umani in virtù di tutto questo potrebbe lasciarci a bocca aperta. Il confine tra l’ecosistema reale e quello digitale tende quindi ad essere così sottile che si può applicare la stessa logica alla risoluzione di problemi reali o professionali che poco hanno a che fare con il gioco puro e crudo, quello caratterizzato solamente da un aspetto ludico. Sarà la realizzazione del sogno immaginato da Gibson e Sterling. Che in parte già è reale.
Xmp: Per Transiti qual è stata la motivazione, la spinta, che ha portato all’adozione di un approccio transmediale?
Giovanni Calia: L’idea è partita dall’analisi del documentario che è andato su RAI3, all’interno di RAI DOC. Raccontare tre storie così profonde e complesse all’interno di un documentario di quaranta minuti circa obbliga a tralasciare qualcosa. Nonostante questo il documentario ha poi fatto segnare il record di stagione, pur essendo andato in onda per la prima volta il 30 Agosto alle 23:45 con oltre un milione e 200 mila spettatori (chi mastica i numeri della TV capirà). E’ stata la conferma che avevamo delle storie forti che non potevano essere sviscerate solo attraverso il documentario. Qualche mese prima della messa in onda abbiamo quindi pensato di utilizzare il materiale che avevamo – creandone dell’altro originale – per offrire uno sguardo diverso di quelle storie. Uno sguardo più profondo, che scavasse in profondità il mondo di ognuno di quei personaggi. La serie interattiva andata su Web su transiti.eu e sul sito RAI ha permesso inoltre di coinvolgere gli spettatori portando la serie ad evolvere in funzione del loro punto di vista. Alla base c’era la nostra volontà di scendere nel dettaglio, di far cadere degli stereotipi sul mondo dei Transgender.
Xmp: Nell’affrontare un argomento socialmente sensibile come quello della transessualità, qual è stato il valore aggiunto fornito dalla declinazione transmediale del prodotto, rispetto ad un più tradizionale approccio monomediale?
Giovanni Calia: Essendo un tema molto attuale e pieno di falsi miti e convinzioni, abbiamo lavorato portando il pubblico a esprimersi, a metterci del proprio, a indirizzare lo storytelling dove voleva. Questo evolvere della storia in funzione delle scelte che il pubblico faceva è stato un passo importante per far si che si esprimesse un’opinione collettiva su elementi forti che riguardavano la storia, che era girata volutamente in prima persona. Alla fine di ogni puntata il personaggio si interrogava su temi forti come la reazione ad un abuso, alla violenza, alla vergogna, al tentativo di suicidio, e in generale al rapporto tra se’ e la società che lo circonda. Spettava poi al pubblico offrire una risposta e indirizzare i passi successivi della storia.
Xmp: Il pubblico come ha reagito? C’è stata una buona percentuale di persone che si sono attivate per inseguire il racconto sulle varie piattaforme?
Giovanni Calia: La serie interattiva è stata pensata anche per anticipare il documentario in TV e fare da traino a quello che era il prodotto principale. L’attenzione sul documentario era stata quindi anticipata dai contenuti del Web. Nei giorni dopo la messa in onda ho avuto modo di sentire chi l’aveva visto e ho trovato riscontri emozionanti: “Mi sono commossa” o “Avete affrontato il tema con una delicatezza estrema e senza mai una vena di volgarità, lasciando da parte tutto e mettendo al centro le persone”. Commenti come questi, insieme a tanti altri attestati di stima e apprezzamento sono la dimostrazione che poi, in fondo, sono le storie a fare la differenza. Il nostro compito era semplicemente quello di porre l’accento sulle sfumature che volevamo far diventare rilevanti. E questo è stato molto apprezzato.
Xmp: Esiste una narrazione transmediale veicolata in primis da esigenze espressive? O la scintilla iniziale è sempre l’obiettivo commerciale che, ovviamente, è in se assolutamente lecito?
Giovanni Calia: Può esistere, certo. Ma non credo ci siano molte persone al mondo disposte a investire così tanta energia e denaro per qualcosa che non sia commercialmente spendibile. Sono invece sicuro che di storie straordinarie nel cassetto ce ne siano tantissime. E questo ovviamente attiene alle esigenze espressive. La verità è che stiamo sperimentando, con gli strumenti che abbiamo a disposizione, un modello che nessuno conosce ancora bene. Strumenti che qualche anno fa non esistevano. Chissà cosa ci troveremo a fare fra una decina d’anni con gli strumenti che avremo a disposizione allora. La progressione esponenziale dell’innovazione tecnologia, a partire da quanto affermato da Moore, da Metcalfe, Herbert Grosch o George Gilder, ci rivela che presto avremo tecnologie e possibilità che oggi non abbiamo. Le storie però andranno sempre dove saranno i consumatori. L’assioma per cui “non sei uno scrittore fino a quando non hai qualcuno che ti legge” è, e sarà, valido per sempre. In questo senso, questo tipo di storie vivranno una sorta di sperimentazione continua ed è per questo che non si può prescindere da un approccio multidisciplinare per costruirle.
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A lunedì prossimo per la terza parte dell’intervista.
A presto.
Cor.P
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