Xmp intervista Matteo Bittanti (1)


Matteo Bittanti  è artista, scrittore, curatore, editore e accademico. La sua pratica artistica si colloca all’intersezione tra simulazione e rappresentazione, new media e cinema, videogame e giocattoli. Le sue opere sono state presentate in musei e gallerie d’arte negli Stati Uniti, Canada, Australia, Gran Bretagna, Scozia, Francia e Italia. Dal 2012 partecipa al progetto COLL.EO insieme all’artista Colleen Flaherty. I suoi progetti e ricerche sono state discusse e menzionate da The New York Times, Fast Company, The Bold Italic, Polygon, The Atlantic, Motherboard/Vice, Il Sole 24 Ore, La Repubblica, Il Corriere della Sera, Rivista Studio, LINK, TAR, 8 1/2  e altre pubblicazioni.
Tra il 2005 e il 2006 è stato Visiting Scholar presso lo Stanford Humanities Lab della Stanford University. Dal 2006 al 2011 ha svolto attività di ricerca presso la Stanford University come Researcher Associate. Tra il 2006 e il 2008 ho lavorato come Ricercatore presso la University of California, Berkeley per un studio etnografico sugli usi delle nuove tecnologie della comunicazione da parte delle giovani generazioni (Digital Youth Project) diretto da Mizuko Ito e Peter Lyman e finanziato dalla MacArthur Foundation. Dal 2007 al 2014 , ha tenuto corsi sull’arte contemporanea, visual culture, media studies e Game Art nei programmi di Visual Studies e Visual & Critical Studies del California College of the Arts di San Francisco & Oakland, California. Dal 2011 è membro del Comitato Scientifico del Master in Digital Entertainment Media & Design della Libera Università di Lingue e Comunicazione (IULM) di Milano, dove svolge attività di ricerca e insegnamento.
Dal 2013 dirige Concrete Press, una casa editrice indipendente che pubblica libri e riviste dedicate all’arte contemporanea, alla cultura e ai media in lingua inglese. Dal 2003, cura la collana editoriale Ludologica. Videogames d’Autore insieme a Gianni Canova per le Edizioni Unicopli. Tra il 2005 e il 2006 ha curato la collana videoludica.game culture per l’editore Costa & Nolan. Ha scritto saggi e libri su The Sims, SimCity, Civilization, Doom e altri titoli seminali. Ha curato la prima antologia di game studies italiana, Per una cultura dei videogames. Teorie e prassi del videogiocare (Edizioni Unicopli, 2002) e il suo seguito, Gli strumenti del Videogiocare. Logiche, Estetiche e (V)ideologie (costa & nolan, 2005). Nel 2006 ha scritto, insieme a Domenico Quaranta, GameScenes. Art in the Age of Videogames per l’editore Johan & Levi di Milano, uno dei primi contributi critici mondiali dedicati alla Game Art.
Dal 2007 è membro della Review Board delle pubblicazioni accademiche GameStudies e Games & Culture. Dal 2011 è membro del comitato scientifico della pubblicazione accademica G/A/M/E. Dal 2012 è membro del Board della CCA Arts Review e del comitato scientifico di Vigamus, il museo di arte videoludica di Roma. Suoi saggi e articoli sono apparsi su pubblicazioni dedicate alla tecnologia, al cinema, all’arte, ai videogiochi, tra cui LINK, WIRED, Rolling Stone, Duellanti, Zzap!, EDGE, Flash Art, Kappa, Game Power e molte altre. Oggi scrive per 8 1/2, rivista di cinema e media studies diretta da Gianni Canova.
Ha tradotto in italiano libri e saggi di Jeffrey T. Schapp, Johanna Drucker, Todd Presner, Peter Lunenfeld, Slavoj Žižek, J.G. Ballard, Paul Krugman, David Bordwell, Neil Gaiman, William Gibson, Richard Grusin, Mark J.P. Wolf, Barry Atkins, Dave Myers, Bernard Perron e di altri autori.

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Xmp: Ciao Matteo. Con te, come con molti altri intervistati, parto dalla questione terminologica…Crossmedia, transmedia, intermedia…i termini proliferano, non sempre accompagnati da un solido rigore definititorio. Sono termini intercambiabili – come l’uso che molti ne fanno sembrerebbe suggerire – o rimandano a fenomeni differenti? Puoi orientarci in qualche modo?

Matteo Bittanti: Il termine transmedialità è di matrice americana. Indica un tipo di comunicazione multimediale espansiva. Usando diversi strumenti – dalla televisione ai fumetti, dal cinema ai social network – si contribuisce a creare dei “punti di entrata” attraverso i quali l’utente può immergersi a vari livelli nella narrazione. L’obiettivo di questa “immersione” è  fidelizzare il consumatore ed incrementare l’appeal dei proliferanti prodotti correlati. Il transmedia, de facto, è una trappola. Tra i suoi maggiori proponenti spicca Henry Jenkins. Crossmedialità è più diffuso in Italia. I due termini sono usati in modo intercambiabile, anche se il secondo si riferisce più a una opportunità distributiva resa possibile dall’infrastruttura tecnica, che ai contenuti veri e propri. Si usa anche intermedialità, che nei media studies indica i processi di integrazione e convergenza prodotti dalla digitalizzazione dell’informazione, mentre nell’arte contemporanea ha un significato affine a “multimediale” in quanto indica una pratica che si esprime attraverso diversi mezzi e canali di comunicazione. A mio avviso queste distinzioni non riflettono reali differenze, un po’ come quelle tra Tardo Capitalismo, Post-Moderno, surmodernità, etc. Differenti teorici coniano concetti ad hoc per descrivere fenomeni che presentano caratteristiche comuni o contigue.

Xmp: Una caratteristica delle narrazioni transmediali è quella di prevedere ‘aree’ in cui il pubblico può interagire in maniera diretta con l’universo finzionale, spesso attraverso meccaniche ludiche. Pensi sia una delle tante influenze del rilievo centrale che i videogame hanno acquisito nella cultura popolare?

Matteo Bittanti: Si tratta di sfruttare meccaniche ludiche per “incrementare il coinvolgimento dei fruitori”, anche se in molti casi l’interazione è povera e vanifica la deliberata sospensione dell’incredulità. Io sono della vecchia scuola e ritengo che i libri funzionino davvero quando si comportano da libri, i film da film, i giochi da giochi, le serie TV da serie TV, per quanto oggi un certo modo di intendere la televisione sia sostanzialmente finito. Parlando di transmedia, sarebbe opportuno operare qualche distinzione. C’è un abisso tra il guardare un evento sportivo in diretta comunicando in tempo reale con gli amici attraverso un social network, che so, Twitter – quasi un ritorno della seconda oralità di Ong – o sciropparsi l’intera offerta di prodotti LEGO – dai videogame ai film. La prima è spontanea e non pianificata dai progettisti/designer. La seconda viene creata ad hoc da multinazionali dell’intrattenimento. Dunque: bottom up vs top down. La prima presenta aspetti interessanti, sul piano sociologico, la seconda non ha per me alcun appeal.

Xmp: Secondo te che rapporto esiste tra storytelling e gaming? Nella sua intervista Peppino Ortoleva mi ha sottolineato come la distinzione tra gioco e narrazione sia radicata nella nostra cultura, ma non lo sia altrettanto dal punto di vista concreto, portando l’esempio di Barbie come ‘gioco con racconto incorporato’; Milly Buonanno mi ha invece espresso una posizione sostanzialmente opposta, sottolineando come la forte componente ludica di questi universi narrativi metta a sua avviso in discussione il fatto stesso che ci si trovi davanti a ‘narrazioni’ e non, piuttosto, ad oggetti mediali diversi…

Matteo Bittanti: La narrazione e il gioco sono pratiche molto differenti. La narrazione – penso al cinema o alla letteratura – non prevede effetti di retroazione. Il gioco, per converso, è un processo dinamico. In Understanding Media (1964) McLuhan opera una distinzione tra quelli che definisce media caldi – ad alta definizione – e media freddi – a bassa definizione. L’alfabeto fonetico, la conferenza, il libro, la fotografia, il cinema e la stampa sono media caldi. Il geroglifico, l’ideogramma, il telefono, il seminario, il dialogo e il cartoon sono invece freddi. Detto altrimenti, il criterio di distinzione usato da McLuhan è il loop di feedback, il meccanismo di retroazione: la sua classificazione, in altre parole, si fonda dunque sull’intensità del coinvolgimento di un fruitore da parte di una forma comunicativa. Il gioco è un dialogo, la narrazione un monologo. Il videogioco è un dialogo con qualche frangente monologico, per via della sua natura “rimediata”, come direbbero Bolter & Grusin.
In questo senso, possiamo definire il videogioco un medium tiepido, in quanto ripropone i contenuti di media caldi – per esempio, cinema, fotografia e libro – sugli schermi freddi della televisione. Come il telefono, richiede al fruitore un’intensa partecipazione. Non a caso, l’interattività – caratteristica essenziale del mezzo – è spesso paragonata a un dialogo, medium a bassa temperatura. Ma nonostante la sventagliata alta definizione, il videogame presenta più affinità con il cartoon e il fumetto che con la fotografia. Per quanto la potenza di calcolo dei microprocessori sia aumentata esponenzialmente dagli anni Settanta a oggi, il fotorealismo resta ancora un miraggio. Il gioco, spiega McLuhan, “raffredda le situazioni calde della vita” attraverso forme spettacolari e performative. Il videogame è più cartoon che graphic novel.

Xmp: Caratteristica ricorrente delle narrazioni transmediali è il ricorso a tecniche di worldbuilding storytelling: creare un universo finzionale capace di contenere, potenzialmente, storie infinite…l’environmental storytelling ne è il complemento micro: un ambiente che in qualche modo guidi le azioni e le possibili scelte del giocatore, orientandole nelle direzioni funzionali all’avanzare la storia. E del resto ogni luogo ha una storia da raccontare (la scena del delitto è l’esempio più scontato…)…è forse questa la tecnica migliore che i videogame hanno da insegnare a chi debba creare narrazioni distribuite ed immersive?

Matteo Bittanti: L’environmental storytelling non è un’invenzione dei videogame. Nasce con l’invenzione del parco a tema moderno, quindi con Disneyland, ma anche con il museo di nuova generazione, che costruisce percorsi ad hoc nelle quali la visione del curatore richiede una negoziazione con gli spazi fisici e con l’infrastruttura esistente. Nei videogame, l’environmental storytelling consente di ridurre i momenti espositivi e didattici che diluiscono l’impatto dell’esperienza. Il miglior esempio di environmental storytelling, comunque, sono i segnali stradali, ma non quelli italiani che sono caotici e spezzo piazzati in posti causali. Gli americani sono molto bravi ad amministrare le masse, gestire le code, imporre l’ordine attraverso forme di sorveglianza e supervisione che le folle introiettano, un po’ per reverenza un po’ per timore, e questo perché, come dice Baudrillard, la vera America è Disneyland, tutto quello che gli sta attorno è pura simulazione.

Xmp: Mi sembra evidente che un concetto chiave sia quello dell’esplorazione. Anche in questo caso si tratta di un legame, di una continuità, del mondo video ludico con quello del transmedia storytelling?

Matteo Bittanti: Nel gioco c’è sicuramente molta più esplorazione che narrazione, data la natura spaziale del medium. Il videogioco è più simile al turismo che al cinema o alla televisione. Non a caso, i giocatori scattano fotografie (catturano schermate), girano filmini da condividere con amici (i machinima) e raccontano le loro esperienze ad amici e perfetti sconosciuti nei forum – ho fatto cose, ho visto avatar. La vera narrazione del game è prodotta dai gamers, non dai designer. I designer generalmente producono B movie hollywoodiani pieni di effetti speciali e zero intelligenza.

Xmp: Cosa pensi di un esperimento come Defiance, la cui componente videoludica era pensata per svilupparsi in simbiosi con quella delle serie tv?

Matteo Bittanti: Un fallimento. L’esperimento è fallito. Basti solo pensare che Trion Worlds è stata costretta a modificare la natura del prodotto, adottando il modello free-to-play dopo una sola “stagione”. L’idea che le azioni dei giocatori avrebbero influenzato il plot della serie TV di Syfy – un turgido mash-up sci-fi/western – non è stata veramente applicata, a conferma che il transmedia resta, nel migliore dei casi, una possibilità mai veramente attuata. Gli sprezzanti giudizi dei fans nel forum di Trion Worlds sono assai più illuminanti delle varie recensioni pubblicate in rete. Videogioco e serie non sono integrate, ma giustapposte e non solo perché il setting della serie TV è (quel che resta) di St. Louis, Missouri e quella videoludica San Francisco. Nel migliore dei casi, il transmedia è una macedonia: ma quando si tenta di mischiare una banana con un cavolfiore, il mix diventa tossico. Defiance – la serie e il game – è un prodotto generico, che sfrutta tutti i cliché del genere, senza introdurre elementi interessanti o innovativi. Potrei dire lo stesso di Falling Skies, ma per lo meno in questo secondo caso le ambizioni transmediali dei produttori erano modeste e nessuno ha usato il termine “rivoluzione”. Non riesco a immaginare come verranno recuperati i costi di investimento (40 milioni di dollari per la serie TV, 70 per il videogame)… Il principio secondo cui un fruitore *deve* consumare più media per godersi l'”esperienza completa” non è una benedizione, ma un’imposizione che trova scarsi riscontri e che non tiene minimamente conto delle modalità di consumo nell’era di information overload. Sfruttare il lavoro gratuito dei fans per colmare lacune strutturali e fare da collante non solo è moralmente ripugnante e intellettualmente pigro ma nella maggior parte dei casi è condannato al fallimento. Evidentemente, i protagonisti di Defiance: A Transmedia Revolution, l’indulgente “promo-doc” incluso nella versione blu-ray della serie, non hanno imparato nulla dall’impasse degli esperimenti trasmediali di Lost. Qualcuno si ricorda dei videogiochi di Ubisoft o della webserie sulla Dharma Initiative (2009)? Appunto. Harry Potter, LEGO, Transformers, Guerre Stellari sono colossali industrie, ma il fantasmatico transmedia non c’entra nulla.

Xmp: Più in generale cosa pensi di videogame inseriti in più ampi franchise transmediali non come semplici ‘tie-in’ ma come significativi (o almeno in questi termini presentati al pubblico) contributi alla costruzione dell’universo finzionale nel suo complesso?

Matteo Bittanti: Si tratta di formule di marketing avanzato finalizzate alla massimizzazione dei profitti sfruttando la forza di una proprietà intellettuale in tutti i settori merceologici. Il transmedia è come un bombardamento a tappeto: si basa su una logica pubblicitaria omnicomprensiva, che promuove un cestello di prodotti che si rivolgono a differenti utenze, alcune contigue, altre meno. La maggior parte del transmedia non è che “merchandise”, “tie-in” e “spin-off”, insomma un gran perdita di tempo. Il termine “franchise” – come quelli che ho appena citato – appartiene al linguaggio del marketing e non a quello dell’arte o della cultura, e ogni volta che lo vedo applicato al videogame mi fa venire il voltastomaco.

A mercoledì prossimo per la seconda parte dell’intervista.

Cor.P

 

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Defiance: play the game and/or watch the show? (2)


Il versante televisivo di Defiance è sviluppato in una serie che, per la prima stagione, conta dodici episodi. Non mi soffermo sul plot, che è quello descritto nella prima parte per il franchise nel suo complesso. In uno scenario post apocalittico (che deve molto a Mad Max), ricco di suggestioni western (che nel videogioco, in gran parte, si perdono) l’elemento di maggiore interesse della serie è la rappresentazione degli alieni (anche) come profughi in fuga da un sistema solare prossimo alla distruzione: cercano qui un futuro migliore, e questo li accomuna a molti migranti. Quelle che arrivano sul nostro pianeta sono, inoltre, razze aliene divise da millenni di lotte e pregiudizi: la convivenza pacifica è un obiettivo difficile non solo con gli umani, ma tra gli alieni stessi. Mia Kirschner, che nella serie interpreta Kenya, descrive (1) la serie come una

immigrant tale… a story, for me, about what happens when these cultures, who have never intersected, come together in one place and how they get along. What I like about the show is the element of realism and the culture clashes that happen, the sad violence that comes along with it, the stories that and the beautiful reconciliation that comes along with it.

Anche il produttore esecutivo Kevin Murphy mette in evidenza questi aspetti:

What’s sort of unusual about this is that it is not simply an alien invasion show. This is really more of a melting pot immigrant drama in that these aliens, the Votans, seven different races, don’t necessarily like one another. Back on their home world they may have been enemies; one race may have conquered the other. They came together out of necessity because their own solar system was about to be destroyed, and it was, “Come together or die.” So we are in a world where old millennia-long prejudices exist within the Votans. Humans are now in the mix. And everyone’s got shared history, shared alliances, shared cultures. And it’s really about, “How do you get together in a new world with all of these different perspectives and musical and cultural perspectives?” So that’s very different from an alien invasion show.”

Tematiche di questo tipo in un contesto Sci-fi, in realtà, non costituiscono una novità assoluta. Cito, tra gli ultimi, il lungometraggio District 9 (2006) ambientato nel Sudafrica del 1982: un’enorme nave spaziale aliena si staglia nei cieli di Johannesburg, dove rimane immobile per settimane, senza dare segni di vita. Il governo sudafricano decide di far ispezionare l’astronave, all’interno della quale viene rinvenuta una colonia di extraterrestri artropodi allo sbando, sporchi, stremati e denutriti. Condotti in salvo sulla terraferma, diventano presto invisi alla popolazione locale e vengono isolati in un campo profughi chiamato “Distretto 9”, dove rimarranno confinati in regime di apartheid per i successivi vent’anni…

L’alieno come metafora del diverso, del marginale è presente anche negli ancora antecedenti Alien Nation (1988),  film successivamente trasposto in una serie televisiva, e in Fratello di un altro pianeta (1984).

Alien Nation

bro

Quelli della migrazione e dell’integrazione (o disintegrazione) razziale rimangono comunque versanti non assiduamenti frequentati dalla fantascienza, che aprono notevoli possibilità in termini di approfondimento dei personaggi, dei loro sentimenti e delle loro relazioni, aspetti su cui la serie potrà ovviamente soffermarsi molto di più del videogioco, focalizzato invece sulla componente action.

Defiance, nel suo insieme, è un progetto estremamente ambizioso, con un investimento complessivo superiore ai 100 milioni di dollari, distribuiti lungo 5 anni di lavorazione.
Come visto nella prima parte, la campagna di lancio  stata fortemente centrata sugli elementi transmediali del franchise, che possono risultare di particolare appeal per gli addetti ai lavori, ma è meno probabile lo siano per il pubblico, per il quale rimane decisiva la qualità della storia e del modo in cui viene narrata, al di là del numero, tipo e livello di interconnessione delle piattaforme mediali utilizzate per raccontarla.
In questo senso l’esempio di The Blair Witch Project (1998) rimane seminale. Per il film di Daniel Myrick ed Eduardo Sanchez, l’utilizzo del web, che ha preceduto l’esordio sul grande schermo, è stato fondamentale per generare quell’effetto realtà risultato decisivo per il successo mondiale della pellicola, presentata come la fedele riproposizione del girato ritrovato nel cofano della macchina dei filmaker scomparsi nei boschi di Blair, dove si erano inoltrati proprio per verificare una volta per tutte, filmandola, l’effettiva esistenza della strega narrata dalle leggende locali. Logica analoga è quella con cui viene utilizzata la rete prima del lancio di Cloverfield (2008): vengono creati diversi siti web di istituzioni finzionali (Tagruato Corporation, Slusho!), in qualche modo legate alle vicende che portano al risveglio della creatura mostruosa che seminerà distruzione a Manhattan nel corso del film; una serie di profili myspace di ragazzi (ad esempio quello di Rob Hawkins) che si riveleranno essere i protagonisti della pellicola; una serie di breaking news multilingue diffuse tramite youtube che danno notizia dell’attacco alla piattaforma petrolifera Chuai Station a partire dal quale il mostro marino viene risvegliato.
In entrambi i casi la dorsale narrativa principale è un film per il grande schermo, e l’espansione diegetica transmediale sul web non è contenuto, ma strumento della campagna di lancio virale del franchise. In altri termini in The Blair Witch Project ed in Cloverfield il transmedia è mezzo di promozione, mentre in Defiance ne è oggetto, circostanza effettivamente innnovativa, ma che lascia piuttosto perplessi…è questo l’unico elemento di attrazione di un progetto che, considerato il budget ed i tempi di produzione, dovrebbe avere ben più numerose frecce al proprio arco?
Del resto, trascorsi pochi giorni dal lancio del videogame, ed a poche ore dalla prima televisiva, Defiance sembra particolarmente interessante proprio dal punto di vista produttivo, perchè per la prima volta lo sviluppo della parte videoludica e di quella televisiva sono avvenuti, ab origine, in parallelo. Questo ha comportato reciproche influenze, reciproci stimoli e reciproche limitazioni. Del ruolo vitale del mythology coordinator, che ha curato il contatto e l’interscambio giornaliero tra i due gruppi di sviluppo, per garantire la creazione di un universo condiviso totalmente coerente, ho già parlato nella prima parte. Quanto alle reciproche limitazioni, ai compromessi, mi limito all’esempio che gli stessi produttori esecutivi riportano nelle numerose interviste rilascite in questi giorni.
Gli autori della serie, nel solco di quella contaminazione tra Sci-fi e western che lo show ha comunque mantenuto, intendevano dare una forte preminenza a personaggi che si muovessero a cavallo, ma questo li avrebbe resi, nel videogioco, un obiettivo troppo agevole per il nemico. Dal canto loro gli sviluppatori dell’MMO ritenevano che nell’universo di  Defiance quella del volo dovesse essere una capacità tanto degli alieni, quanto degli umani, supportati da tecnologie adeguate. Ma dal lato tvshow, questo volare per tutti avrebbe comportato un sensibile incremento dei costi di produzione, soprattutto per gli ulteriori effetti speciali che si sarebbero resi necessari. Circostanze come questa hanno reso molto stimolante, ma non sempre agevole, il rapporto tra i due comparti produttivi, come descrive bene un recente articolo dell’AdWeek:

In the end, some of the negotiations over the complexity in the game versus the effects in the show were handled as a hostage exchange: You give us jetpacks, we’ll give you horses and nobody gets hurt. “They really didn’t want to do horses in our world,” sighs Mark Stern, president of programming for Syfy—the critters present too big a target for this kind of game”. “So the agreement was, ‘OK, as long as you agree to no flying, we’ll agree to no horses.’ “[…] “We wanted flying vehicles, and Mark and his crew were like, ‘Screw flying, it’ll blow up our CG budget,’ grumbles Beliaeff. “So we ended up creating this whole mythology where the Ark ships blew up and that created this low-flying asteroid field that made flying in the world impossible.”

Altro aspetto specificamente legato al lavoro congiunto tra due industrie complementari ma così fondamentalmente diverse è stato per esempio lo sviluppare e fissare sin dalle prime battute il design delle scenografie, dei costumi, delle armi, dei veicoli, fase di lavorazione vitale per il videogame che quindi, per questi aspetti, ha dato molto alla serie televisiva, per la quale questi elementi sarebbero stati sviluppati in una fase successiva a quella della stesura dello  script.

In conclusione vale la pena ritornare sull’ultima parte dello slogan di lancio del franchise: ‘Play the game, Watch the Show, Change the world’. Questo ‘cambia il mondo’, strizza l’occhio ad un pubblico cui sembra riconoscersi il potere di intervenire sulle sorti dei personaggi di Defiance e sull’universo in cui si muovono. Questo è sicuramente vero nel videogioco, ma lo è meno nell’insieme del franchise, per il quale, a detta degli autori, l’influenza generatrice dei gamers si avrà soprattutto prima del lancio della seconda stagione. Del resto le tecniche transmediali utilizzate sono piuttosto tradizionali e prudenti, volte a conservare la fruibilità indipendente di prodotti di intrattenimento fortemente integrati, ma più dal punto di vista produttivo che da quello diegetico. In altri termini, il prodotto non è più transmediale di altri che questa caratteristica l’hanno comunicata molto meno. La forte innovazione non è nel modo in cui il racconto è transmediato, ma nel peculiare iter produttivo, nella tempistica di lancio del videogioco e della serie televisiva (praticamente concomitanti), e nei contenuti della campagna di comunicazione. Personalmente la memoria va a Ritorno al futuro 2 (1989) e Ritorno al futuro 3 (1990), che alla fine degli anni Ottanta fecero molto parlare di se per la strategia produttiva: era infatti la prima volta che due sequel venivano prodotti congiuntamente, per poi essere distribuiti in date differenti. Oggi vengono ricordati più per questo aspetto che per come riuscirono a completare la storia raccontata nel primo, impareggiabile, film della serie.

Defiance si rivelerà anche un grande successo di pubblico o rimarrà solo un interessante case study?

A presto
Cor.P

(1) Gli estratti citati in questo post sono ripresi da interviste rilasciate da componenti del cast o dello staff produttivo di Defiance ai seguenti siti specializzati: www.digitalspy.co.uk, www.gameinformer.com, www.dealspwn.com, www.gamespot.com,  www.dreadcentral.com,
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