Xmp intervista Salvatore Iaconesi (2)


196924387676038592-salvatore-iaconesi.fullEccoci alla seconda parte dell’intervista a Salvatore Iaconesi, che al termine della prima parte aveva messo in parallelo il funzionamento del nostro cervello con alcune delle tecniche narrative utilizzate nel transmedia storytelling.

Xmp: Il ruolo centrale acquisito dai videogame nella cultura popolare, ha influenzato la diffusione di formati narrativi ludicizzati (penso in particolare a quelle parti del racconto in cui si cerca di garantire maggiore possibilità di interazione al pubblico)?

Salvatore Iaconesi: Il mio parere è che questo elemento sia una questione di “codifica”. Il ruolo dei videogame ha influenzato la diffusione di formati narrativi ludicizzati codificati. Abbiamo sempre giocato. Forse anche di più. Il gioco è sempre stato importantissimo per come lo usiamo per imparare a fare le cose, a collaborare, a relazionarci con gli altri, e così via.
Quel che è interessantissimo è che l’esperienza di gioco diventa sempre più codificata da altri. Sta, sempre di più, svanendo la possibilità per i giovani di creare i propri codici, a vantaggio della possibilità per gli adulti di creare i codici per loro. Sono sempre minori le possibilità per i bambini, ad esempio, di trovarsi a giocare in tempi/luoghi/modi non codificati, non decisi da altri: questo è il tempo/luogo in cui si gioca; questa è la palestra; questo è il campo da calcio; questo è il videogame.

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Prima dei videogame (e prima di tante altre cose, in realtà) c’era una maggiore esplorazione. Per dirla con i termini che abbiamo usato prima, c’era una maggior performatività, autonoma, creativa al di fuori dai codici, in cui, addirittura, creare i propri codici. I bambini erano in un continuo stato di creazione di mondi, transmediale. In un certo senso ci siamo trovati a diventare utenti, fruitori. Da performer a fruitori di servizi. È, evidentemente, una questione di codici. E, secondo me, il transmedia è una enorme opportunità, in questo senso. Nel senso della possibilità di abilitare nuovi metodi per stimolare di nuovo questa modalità performativa nelle persone, per creare i propri codici e condividerli – e metterli in discussione – con gli altri.

Xmp: Tra quelli tradizionali, c’è un medium che più degli altri sta dimostrando flessibilità nell’adattarsi a queste produzioni che si rilanciano da un canale distributivo all’altro?

Salvatore Iaconesi: È una domanda molto difficile. Perché il cambiamento è di tipo mutagene: quando avviene il “media” non è più lo stesso: occorrerebbe trovargli un altro nome.
Ma, se proprio vogliamo farlo, potrei dire il giornale, il quotidiano. Che, appunto, non è più lo stesso. È diventato una costellazione coordinata di oggetti (fisici e digitali) e processi. Include dati ed esperienze. Gallerie di immagini ed eventi. Spin-off e narrative parallele. Conferenze e flash-mob. Concorsi e guerrilla. Applicazioni mobile e contributi per la costruzione di smart cities. Il tutto per definire, se sono bravi, una esperienza unica e partecipativa, che però si stenta ad identificare con un “quotidiano”. Ma è quello che sta avvenendo. E, infatti, nei “quotidiani” iniziano ad apparire figure professionali inusitate: sviluppatori, ingegneri, organizzatori di eventi, sceneggiatori, artisti, designer di ogni genere, scienziati.

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Xmp: Ed i Social network? Mi sembra che oggi sia imprescindibile, nella costruzione di universi finzionali, la previsione di una presenza sui social network più diffusi…che valore aggiunto possono dare, secondo te, al racconto di una storia?

Salvatore Iaconesi: Profondità e performance partecipativa. Come detto: è il maggior determinante della riuscita di ogni storia. I social network permettono di stabilire la relazione, il network attraverso cui, a tutti gli effetti, la storia verrà narrata. Per essere “bravi”, dovremmo mirare a far sì che la storia diventi una piattaforma di espressione, un network relazionale, condotta da un incipit che attuiamo attraverso la narrativa transmediale: un “mondo” creato per far sì che le persone si attivino nella creazione di mondi.

Xmp: Quali competenze specifiche dovrebbero caratterizzare un professionista che intenda affermarsi in questo settore come transmedia storyteller?

Salvatore Iaconesi: È necessario chiarire una cosa. Per esempio: come si diventa “buoni scrittori”? Ci sono, ovviamente, vari livelli di interpretazione di una domanda del genere. Se la buttiamo con le competenze tecniche, uno scrittore potrebbe usare penna e calamaio, mentre un altro potrebbe usare del software di l’intelligenza artificiale per creare i suoi testi. Sono due opzioni fattibili e, tra l’altro, esistenti. E in mezzo ai due estremi c’è tantissimo spazio. Non penso che il punto di partenza debba essere tecnico o tecnologico, specialmente nell’era dell’informazione e della condivisione dei saperi. Penso che il punto di partenza debba essere culturale, e di immaginario. Attenzione: non parlo di immaginazione, ma di immaginario.
Per creare storie, bisogna leggerne tante. Di tanti tipi. Di tanti tempi, argomenti, momenti storici, modi di scrittura diversi. Bisogna essere in grado di analizzare le storie, comprenderle, criticarle. Vedere quali storie si scrivono e perché. Pinocchio è una storia per bambini, ma racconta anche il momento storico in cui è nata, lo spirito del tempo, gli approcci filosofici. Sono tutte cose fondamentali. Specialmente se si ambisce a creare una storia. La tecnica e la tecnologia sono semplici al confronto. E non deve sussistere dubbio alcuno: chi scrive la storia non è un tecnico, e neanche un tecnologo. Può accadere, ma non è necessario.
Quindi “come si diventa un buon transmedia storyteller”? Leggendo. Leggendo tanto. E capendo, in profondità le storie, il loro perchè, le loro strutture, il modo in cui sono costruite, non solo sul “libro” (o altro/i media), ma soprattutto nel modo in cui si sono sviluppate, quali link stabiliscono, quali significati accolgono, quali ne creano, a quali codici fanno riferimento. Ovviamente: siamo nell’era digitale. Occorre conoscerla, inclusi gli strumenti che le persone usano per esprimersi, per comunicare, per lavorare e consumare. E occorre capire i perché di tutte queste cose. Bisogna essere, in questo senso, degli antropologi, degli etnografi. Quindi, in sintesi: scrittori e antropologi. E, soprattutto, dotarsi di metodologie per lavorare in gruppo, per collaborare, per creare idee e discuterle in team.

Xmp: Ma tra i tanti…quale secondo te un libro di stimolo fondamentale per chi voglia narrare espanso?

Salvatore Iaconesi: Io ho tre favoriti: il Simulacres et Simulation di Jean Baudrillard, praticamente tutto Jorge Luis Borges, e Neuromancer di William Gibson. Il primo per la sua potenza nel descrivere il concetto di simulacro. Borges per la sua capacità di evocare scenari in cui la rappresentazione è più vera del vero. E Gibson per la cura con cui interpreta il concetto di Near Future Design, inteso come futuro veramente prossimo (anche oggi pomeriggio), capace di osservare il presente, evidenziarne le modalità ed utilizzarle in maniera transmediale (in senso “interiore”, come dicevamo prima) per suscitare desiderio e, quindi, trasformazione.

Xmp: Near Future Design… in sintesi di cosa si tratta, e quali opportunità offre a chi – e qui uso volutamente un termine il più possibile generico – voglia ‘creare’?

Salvatore Iaconesi: C’è una definizione di Superflux che mi piace moltissimo: si tratta di partire dalla descrizione della “realtà consensuale”, e di unire la descrizione dello “strange now” e delle “possibilità future” con l’obiettivo di descrivere il “new normal”. La realtà consensuale è il mondo che ci circonda, come mediamente lo percepiamo: le cose ordinarie, le narrative stabilite, usuali, la nostra quotidianità.
Lo Strange Now si compone attraverso l’osservazione etnografica dell’emergente, delle cose che “avvengono”, e che però non sono ancora pienamente codificate, comprese e assunte. Un perfetto esempio di Strange Now di qualche tempo fa era il comportamento che le persone avevano ai concerti, usando gli smartphone: perché diamine si perdono il concerto per fare delle foto col cellulare? Ce lo chiedevamo, non capivamo, e adesso è diventata la norma, tanto che ci sono dozzine di servizi atti a facilitare questo comportamento e a monetizzarlo. Le Possibilità Future sono derivate dall’osservazione, anche in prospettiva, dello stato dell’arte e delle tecnologie: quali sono/saranno le tecnologie migliori, più interessanti, più lavorabili, più malleabili del prossimo futuro?
Il tutto messo insieme per progettare il New Normal, ciò che sarà normale, usuale, tra poco, tra un mese, un anno, o anche oggi pomeriggio. Questo è, in sintesi, quello che fa un near future designer. È molto importante. E in un lavoro del genere la possibilità di comporre narrative transmediali è fondamentale.

Xmp: Mi sembra che tutto questo si leghi molto con il Design Fiction…anche in questo caso ti chiedo di chiarire ai non iniziati di cosa si tratta…

Salvatore Iaconesi: Il Design Fiction consiste nella realizzazione di prototipi diegetici per creare una sospensione della capacità di giudizio sul reale, al fine di abilitare una visione possibilistica del mondo. È fantascienza narrata attraverso degli oggetti. Se io ti faccio vedere un teletrasporto che, a tutti gli effetti sembra funzionare (e che magari funziona davvero, o ha tutti gli effetti che causerebbe l’esistenza di un teletrasporto), tu, immediatamente, avresti una sorta di illuminazione, di shock culturale, capace di trasformare in maniera radicale la tua percezione di “cosa è possibile”. Questo è un effetto potentissimo, al di là di ogni libro di testo, di qualsiasi lettura: l’oggetto è lì, di fronte a te, e ti obbliga a cambiare la tua visione del mondo, a spostarti un po’ più in là, in un altro mondo, in cui cose diverse sono possibili. Il Design Fiction è uno spazio, crea degli spazi: nuovi, molteplici e possibilistici.Rende facile prendere parte alla performance del futuro, alla creazione del futuro, tramite degli oggetti che entrano in modo molto naturale nel nostro “campo di normalità”, cambiando il modo in cui ci esprimiamo, aggiungendo parole al nostro vocabolario, mutando la nostra percezione del mondo e, soprattutto, il nostro immaginario. Ora è sempre più semplice ragionare in questo modo: è possibile creare oggetti elettronici, gadget e oggetti di design a basso costo, usando componentistica semplice ed accessibile, e con la stampa 3D, per esempio.

Xmp:  Esistono tecniche e strumenti specifici (bibbie transmediali, applicativi ad hoc?) per scrivere questo tipo di prodotti?

Salvatore Iaconesi: Io ho i miei, ma per altre persone potrebbero essere altri. Uno Google Keep e un Tumblr privato per prendere appunti. Sempre, continuamente. Ogni cosa che vedo, sento, di cui ho esperienza: un appunto, una foto o breve video. E me li riguardo spesso: cambio le tag, li riordino, li osservo per periodo o argomento, li reinterpreto. Leggo tanto. Di tutto. Dai manuali delle istruzioni, ai classici, alla fantascienza, ai libri di testo e i manuali, ai libri di Design e Architettura, alle riviste di ogni genere. E faccio foto anche di questi, ci prendo appunti sopra, strappo pagine, faccio screenshot…Uso molto Google Calendar: faccio calendari su calendari, che seguo (e riorganizzo) in maniera maniacale. Li uso per ricavarmi momenti per tutto: dalla lettura, all’andare dal commercialista, a incontrare persone, a fare giri a caso per la città in cui mi trovo. Li riorganizzo spesso, cambio le cose, cancello, ne aggiungo di nuove. È importante avere un senso del tempo, sapere quanto ci vuole a fare le cose, per me e per gli altri, anche le più strane. Nei miei calendari troverete anche scritte di tipo “qui non ci sono”, il che vuol dire che è un tempo che dedico allo scomparire, al de-codificarmi, al fare cose strane, all’andare in un posto a caso, in cui magari non sono mai stato prima. È fondamentale iniziare a capire quali sono i momenti più rilevanti delle nostre giornate, del nostro tempo, e costruire a partire da quelli. Non cedere alle distrazioni, alla mancanza di attenzione. Diventare performer attivi nello stabilire priorità, urgenze, importanze relative. Per gli strumenti tecnici: non ce n’è un set fisso. Con il tempo ho imparato ad imparare. Non è tanto importante sapere usare degli strumenti specifici. È importantissimo, invece, imparare come si fa ad imparare ad usare qualsiasi cosa entro una settimana. E magari anche a diventare più bravi dopo. Ma è importantissimo imparare ad apprendere i fondamentali di qualsiasi cosa, e a buttarsi, imparando con l’esperienza. Questo è uno skill decisivo. Non ti farà diventare mai obsoleto, e avrai sempre un vantaggio competitivo su tutti quelli che non lo possiedono. Nei miei calendari maniacali esistono sempre degli spazi per imparare cose nuove, per la sperimentazione, fine a sé stessa.

Alla prossima settimana per la terza e ultima parte dell’intervista.
A presto.
Cor.P

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Xmp intervista Salvatore Iaconesi (1)


Salvatore Iaconesi, Interaction designer, artista, ingegnere robotico. Professore a contratto presso la “Sapienza” Università di Roma, Facoltà di Architettura, Dipartimento di Disegno Industriale. Professore a contratto presso ISIA Design Firenze, dove insegna “Design Digitale Multipiattaforma”. Professore a contratto di “Interaction Design” presso IED Roma. Professore a contratto presso Rome University of Fine Arts. Professore a contratto presso il Master in Exhibit & Public Design e presso il Master in Interaction Design della “Sapienza” Università di Roma. Lecturer presso la Aalto University, Helsinki (Finlandia), dove insegna “Digital Design”. Consulente strategico per diverse organizzazioni ed aziende.
TED Fellow. Eisenhower Fellow.

Esperto di design strategico, di progettazione di sistemi esperti e di supporto alle decisioni, di design di sistemi di condivisione della conoscenza e di sistemi dedicati alle comunità multiculturali.
Tra i clienti: NttDoCoMo; H3G; Telecom Italia; Smart Telecommunications; Sony-Ericsson; 12Snap; TILab; Siemens International; Governo Italiano; General Electric; European Union Culture and Media Programs; le amministrazioni delle città di Roma, Firenze, napoli, Pompei, Torino, Berlino, Edinburgo, Nova Gorica, Trieste, Milano, Bergamo; Transmediale, Ars Electronica , Arts Council UK, Ministero della Cultura. Ha progettato e realizzato molte esperienze interattive per le arti, l’architettura, il teatro e le arti performative, su temi di rilevanza sociale a livello planetario, ed esposte in tutto il mondo.

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Xmp: Ciao Salvatore, benvenuto su CrossmediaPeppers…Penso valga la pena partire cercando di fare un po’ di chiarezza terminologica… crossmedia, transmedia, intermedia, assistiamo ad un proliferare di etichette, a cui mi pare non corrisponda altrettanto rigore definitorio. Puoi orientarci in qualche modo? Esistono delle differenze o questi termini sono interscambiabili?

Salvatore Iaconesi: Sì, è vero. Seppur esistano definizioni formali e precise per tutti questi termini, è raro vederli usati in modo corretto.
Il termine Intermedia, per esempio, fa riferimento alla definizione del confine tra i vari media e tra le diverse discipline artistiche. Non per niente è nato negli anni ’60, durante Fluxus, quando stavano diventando veramente difficili da definire i confini tra ciò che era audio, video, pittura, performance e così via. Era un momento di grande creatività, che avrebbe avuto portata rivoluzionaria, come ci mostra la Storia dell’Arte; si stavano scoprendo non solo nuovi modi di fare le cose, ma intere pratiche artistiche, a cavallo tra discipline che venivano ibridate, remixate, mischiate, fatte a pezzi e reinventate.

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I termini crossmedia e transmedia sono, invece, più vicini, ma non uguali.
In qualche modo il crossmediale include il transmediale: è più generale. Si parla di crossmedia quando si indica la capacità – di brand, iniziative, storie… – di utilizzare diversi media, in modo più o meno coordinato. Ad esempio, se ho un brand che si manifesta sul web, su carta, sul mio smartphone, sui social network, su una pubblicità per strada, e così via, sto parlando di crossmedia. La vera differenza con il transmedia è l’esperienza, la storia, l’immersività. Quando Jenkins ha definito il transmedia ha posto, giustamente, l’enfasi sull’uso coordinato di diversi media per creare una esperienza unica, immersiva, in cui le manifestazioni crossmediali fanno parte di un unico piano per creare la storia, l’esperienza e la performance. Questo fa veramente la differenza.

Xmp:  Come cambia il ruolo del pubblico di fronte a questi universi narrativi espansi?

Salvatore Iaconesi: La domanda può essere posta in tutte e due le direzioni, ovviamente. Nel senso che non è una mutazione unidirezionale. Come del resto non sono le tecnologie che cambiano l’essere umano oppure l’essere umano che cambia le tecnologie. È una trasformazione vicendevole: un ecosistema.
In questo senso il “pubblico” cessa di essere un pubblico, se mai lo è stato. Le persone diventano performer, prendendo parte alla narrazione. Proprio come accadeva per i libri: lo scrittore scrive “prato” e un lettore pensa ad un prato verde, mentre un altro pensa ad un prato ventoso, d’autunno. Prendono tutti parte alla narrazione, tramite i modelli mentali. La cosa che sta cambiando a velocità vertiginosa è il modello di attenzione e la sensibilità alla rilevanza.
Il modello di attenzione cambia per diversi motivi, primo tra tutti l’enorme quantità di informazioni cui siamo esposti e la loro interconnessione ipertestuale. Abbiamo oramai imparato a saltare di palo in frasca, a remixare continuamente, a seguire collegamenti, piuttosto che testi monolitici. Il narratore deve tenerne conto e, anzi, può (e deve) utilizzare questa modalità a suo vantaggio.
La sensibilità alla rilevanza cambia come risultato del mutato modello di attenzione. È molto più complicato “convincere” qualcuno che un certo “pezzo” di storia è proprio rilevante. Si devono attuare molti meccanismi diversi, allo stesso tempo, in maniera coordinata, per far sì che una persona abbia una esperienza “completa”, più lunga di qualche istante. In un certo senso dobbiamo essere più bravi noi a fargliene sentire il desiderio, quasi la necessità, fornendo indizi e suggestioni convergenti. Anche sfruttando la “coda dell’occhio”.
E, soprattutto, coinvolgendo, permettendo alle persone di prendere parte alla creazione della storia, in uno dei tanti modi possibili. Questo è, come sempre, il modo più efficace di suscitare il desiderio.

Xmp: Un esempio concreto di tecniche utili per “convincere qualcuno che un certo pezzo di storia è proprio rilevante”? Per convincerlo che vale la pena inseguire e contribuire a costruire la storia spostandosi da un medium all’altro?

Salvatore Iaconesi: Io uso molto spesso esempi di “movimento”, nel senso dei movimenti politici o di rivendicazione. Ad esempio Occupy Wall Street, o la precarietà in Italia, con San Precario: non potrebbero esistere senza una storia che attraversa una molteplicità di media differenti in modo coordinato (da quelli più digitali alla fisicità della manifestazione in strada), e in cui è fortissima la dimensione performativa, del desiderio e dell’immaginario. Non servono soldi, alla fine, per tirarli su, ma una storia capace di coinvolgere, rilevante e, soprattutto, che affronti temi fondamentali, che non sia soltanto una cosa “manierista”, con gli effetti speciali.

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Storie di questo tipo coinvolgono migliaia, spesso milioni, di persone, che prendono parte ben volentieri alla narrazione, perché è importante per loro, perché stimola l’immaginazione, fornendo una visione di ciò che è possibile: fa percepire che le cose possono cambiare in meglio, partecipando.
Questo è forse il tipo di esempio che molte aziende dovrebbero tenere a mente. Non si possono/devono più solo vendere prodotti e servizi: bisogna cambiare in meglio il mondo, anche per piccoli passi, e bisogna farlo con le persone, narrando la storia di come si vuole migliorare il pianeta e la società, e garantendo la possibilità di partecipare attivamente a processi del genere.
Sembrerà pazzesco, forse, a tanti soggetti aziendali, ma è così: anche per un produttore di assorbenti intimi, o di assicurazioni per la vita, o di carne in scatola. È il momento di fare i soldi in modo diverso, migliorando il pianeta, insieme alle persone. È lì, attualmente, la maggiore opportunità di business.

Xmp: Forse ci stiamo dimenticando troppo velocemente del caro, vecchio, amabilmente pigro, spettatore monomediale?

Salvatore Iaconesi: Siamo mai stati monomediali? Io non credo. Erano differenti i media, i tempi, i loro ritmi e il loro modo di intrecciarsi e disseminarsi. Ma l’essere umano non è mai stato monomediale. C’è un fatto, però, molto importante. Prima, fino ad un certo punto, la nostra multi/cross/trans-medialità era più interiore. Se leggevo un libro, provavo lo stesso una serie di esperienze differenti: sonore, visive, olfattive, propriocettive. Basti pensare al modo in cui leggendo in un libro che “Marco si morse il labbro con fare nervoso…”, molte persone si morderanno veramente il labbro, o almeno immagineranno di farlo. Quindi una esperienza transmediale, ma interiorizzata. E “prima” era così: transmediali, ma da dentro.
Ora ci stiamo progressivamente aprendo all’esterno, tanto che non solo gli stimoli, tramite le tecnologie ubique possono venire da fuori, ma addirittura la nostra identità assume forme che sono parzialmente fuori dai nostri corpi fisici. E un numero potenzialmente infinito di persone e processi possono intervenire nel nostro campo percettivo.
È uno spostamento di confini, e una loro maggior permeabilità e penetrabilità.

Xmp: Un modo di raccontare che rilancia il filo narrativo da un medium all’altro, è davvero così innovativo come gran parte della retorica sul transmedia storytelling da Jenkins in poi tende a suggerire?

Salvatore Iaconesi: Ci sono pareri discordi, ovviamente. Io dico di sì, per un motivo molto semplice: è questo il modo in cui funziona il nostro cervello, la nostra percezione. Noi, in realtà, non sappiamo nulla del mondo. Ma il nostro cervello è bravissimo a fare una cosa: raccogliere indizi. Se vediamo un “tavolo” non sappiamo cosa è un “tavolo”. Guardiamo non solo il tavolo, ma anche quello che lo circonda, il contesto, quello che c’è sopra, eccetera. E, oltretutto, uniamo quello che vediamo, annusiamo, sentiamo con quello che sappiamo già, per capire di cosa stiamo avendo esperienza.
Quando faccio le lezioni ai miei studenti, faccio sempre questo esempio: gli mostro un’aula e una sala operatoria. In tutte e due c’è lo stesso tavolo: nella prima è, senza ombra di dubbio, un tavolo da disegno; nella seconda è il tavolo operatorio. Cambiano le cose che ci sono sopra, intorno. Ma è lo stesso tavolo. È come i film horror: se levi il suono sono ridicoli, non fanno paura.
Transmedia è la creazione di un mondo coerente, in cui tutto punta alla descrizione della storia di quel mondo: ogni sassolino disseminato per la strada, anche quelli un po’ lontani dal percorso, che vediamo con la coda dell’occhio, descrivono il mondo.
E il nostro cervello funziona così: raccoglie tutti gli indizi, anche quelli meno evidenti, e cerca di trovare schemi, pattern ricorrenti, segni, associazioni, modelli. Se ci sono indizi sufficienti disposti bene, riconosciamo la storia, ci crediamo, esiste.
È interessante, oltretutto, come in questo processo sia importantissimo lasciare degli “spazi vuoti”, indeterminati, disseminati con cura. Perché questo provoca una sensazione di incompletezza che stimola in noi una modalità performativa: costruiamo da noi stessi le parti mancanti, partecipando alla costruzione del mondo.
È come la moglie del Tenente Colombo dei telefilm degli anni ’70. Non si è mai vista nel telefilm. Ma ci sono tanti, tanti indizi disseminati – in modo implicito o esplicito – sulla sua presenza: l’impermeabile sporco, i consigli che dà al detective, il fatto che gli cambia i lacci delle scarpe, la cucina, eccetera. Nonostante non l’abbiamo mai vista tutti noi ci siamo fatti ognuno una propria idea di come sia fatta, abbiamo costruito un nostro modello mentale della moglie del Tenente Colombo. Sappiamo se è mora o bionda, come si veste, cosa fa nelle sue giornate, come si muove. Ognuno ha un modello proprio, diverso dagli altri. Perché ognuno di noi ha partecipato autonomamente alla costruzione del mondo, in modo performativo.
Questo, nell’era dell’informazione, della comunicazione e, soprattutto, dei social network, è importantissimo. Perché è proprio questa modalità performativa, desiderata ed attuata dal nostro cervello – da come siamo fatti – che scatena la partecipazione alla narrazione transmediale.

Alla prossima settimana per la seconda parte dell’intervista.
A presto.
Cor.P

 

Nuno Bernardo on Transmedia Pitch


Nuno Bernardo ha pubblicato online una guida al pitching di progetti transmediali. La guida è molto agile (18 pagg.), ma ricca di esempi stimolanti, ed è scaricabile gratuitamente qui.

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Come da titolo, la guida è pensata per chi voglia presentare in maniera convincente un progetto transmediale, al fine di coinvolgere partner che lo finanzino. Convincere qualcuno a mettere i propri soldi su un progetto creativo significa prima di tutto essere pronti a rispondere ad alcune domande fondamentali sul progetto in se e sulle motivazioni della sua natura transmediale.
Del resto molte di queste domande bisogna in primis porle a se stessi, nel momento in cui si decide di imbarcarsi nella realizzazione di progetti di questo tipo. Si tratta infatti di questioni fondamentali, elementi centrali per avere da subito una direzione di marcia ben definita. Per questo motivo la guida è utile per un pitching efficace ma anche, più in generale, per avere ben chiari alcuni principi cardine nella progettazione di prodotti transmediali.

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Trovo inoltre particolarmente riuscito il paragone utilizzato da Bernardo per spiegare come la scelta di narrare transmedialmente non sia una scelta vincente ‘a prescindere’, e debba anzi esserne vagliata attentamente l’opportunità, in particolar modo quando le risorse disponibili sono scarse:

[…] I used the Mona Lisa metaphor to explain this problem […] It.s a fact that a big percentage of visitors of the Louvre go to the museum to see the famous Leonardo Da Vinci painting and only visit the corridors from the main entrance to the Mona Lisa room and back. But he Louvre has many other corridors and exhibition rooms that are not that popular: they are only seen by a small portion of the museum visitors. […] [My advice is] focus on your Mona Lisa, the core story, characters and elements of your project, and the ‘corridors’ that lead to that core element. Don’t try to set up the full Louvre with its dozens of rooms and corridors, especially if your resources are limited. Down the line, if you succed with your initial approach, you will be able to add another room or another corridor.

A presto.
Cor.P

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