Eccoci alla seconda parte dell’intervista a Simone Arcagni, che aveva concluso la prima parte sottolineando il rilievo della componente artigianale nella ideazione e realizzazione di narrazioni espanse.
–
Xmp: Un modo di raccontare che rilancia il filo narrativo da un medium all’altro, è davvero così innovativo come gran parte della retorica sul transmedia storytelling da Jenkins in poi tende a suggerire?
Simone Arcagni: Secondo me no, ma per due diversi motivi che devono essere spiegati.
Il primo è che basta guardare al Novecento…parto da un ricordo personale: Sandokan…da bambino non ne perdevo un episodio. Mia madre mi ha dovuto comprare il gioco in scatola, mia zia l’album delle figurine. C’era poi un giornaletto che usciva ogni mese, non ricordo se allegato a qualche rivista, in cui le avventure di Sandokan erano adattate in forma di fumetto. L’editore Longo di Torino, che aveva i diritti dei romanzi di Sandokan, li ha ristampati tutti con in copertina l’immagine di Kabir Bedy e degli altri protagonisti dello sceneggiato televisivo.
Tutto questo cos’era, convergenza? Sì, fondamentalmente era già la cultura convergente, ed ho fatto un esempio italiano. Se pensiamo alle serie tv o ai film statunitensi e tutto quanto ruotava loro intorno, la tesi che sostengo si rafforza: da questo punto di vista non è stato inventato nulla di nuovo.
Penso però che il digitale e la rete accelerino ed espandano queste caratteristiche.
Secondo me il vero problema è continuare a pensare al sistema del mondo dei media e dello spettacolo in maniera evolutiva e a chiedersi che cos’è originale, cosa c’è stato prima, cosa c’è stato dopo. Il rischio è quello di non comprendere alcune specificità del mondo digitale. Anche per questo penso che, nonostante siano passati ormai parecchi anni, il teorico migliore in questo settore rimanga Lev Manovich, sia con il classico Il linguaggio dei nuovi media, sia con il più recente The Software Culture, in cui sostiene che bisogna studiare i software, la loro storia, quella delle interfaccie, per capire come il computer nasca all’interno di una società e di una cultura e ne prenda modi, modelli, pratiche, memorie ma al contempo, andando avanti, questi modi, modelli, pratiche, li modifichi in maniera sostanziale. Quindi non penso abbia senso dire ‘ah ma questo è un frammento dello 0,5% del cinema classico americano, ah, qui ho notato uno 0,2% di Fassbinder…’. È un lavoro che secondo me rischia di essere inutile.
All’interno dei filmstudies c’è un filone molto interessante, che è quello dell’archeologia dei media, che va a creare delle famiglie filologiche attraverso le storie dei singoli media. È un lavoro fantastico, che però a noi interessa per andare a ritrovare, nel panorama digitale contemporaneo, delle modalità, degli stili, dei linguaggi, delle possibilità critico teoriche, ma non, a mio avviso, un percorso evolutivo. Secondo me, e parlo in generale, la domanda culturale sul quanto in questi nuovi prodotti rimanga del ‘cinema’ è mal posta…voglio dire, ci aiuta a capire meglio a cosa siamo di fronte quando parliamo di un film nato e distribuito su Youtube, ma non può bastare. A me non basta sapere che li c’è una forma linguistica che rimanda al cinema o alla televisione. A me interessa capire che dinamiche si stanno sviluppando, quali pratiche fruitive vengono alla luce, quale design si evidenzia.
Design per me, in questo contesto, è la vera parola fondamentale, la parola chiave. Oggi tutto deve essere disegnato, anche per quanto dicevamo prima, creare degli spazi all’interno dei quali io metto contenuti, storie, narrazioni, fili, logiche, flussi, codici…ed un pubblico che possa abitarli. Ritengo che guardare a tutto questo chiedendosi quanto c’è di cinema, quanto c’è di televisione, è una prospettiva molto limitante, lo definirei un errore metodologico…
Xmp: In contesti narrativi di questo tipo, è ancora possibile distinguere il marketing della storia dalla storia vera e propria? Ed ha ancora senso farlo?
Simone Arcagni: Probabilmente no…i paratesti in questo momento sono a tutti gli effetti parte del testo primario. L’ultima edizione di MediaMutations era proprio sulla paratestualità ed è emerso con evidenza come tutto ciò che prima era, appunto, paratesto – il trailer, la pubblicità, il teaser… – in questo sistema diventi parte integrante del testo principale. Un esempio in questo senso oggi è la Lego. La Lego decide di non far la solita pubblicità di alcune sue linee di prodotto (ad esempio quella legata a Star Wars) ma di farne una webserie. Che diventa virale.
E va talmente bene che Lego chiede agli utenti di fare dei loro webisodes, con concorsi e contest vari. Ed anche qui il successo è talmente forte, che la Lego arriva a produrre il lungometraggio cinematografico uscito da poche settimane in Italia.
Il mondo della narrazione Lego StarWars è un’ecosistema, una federazione che comprende tutti questi elementi, ed è difficile dire quale di questi sia pubblicitario, ma anche quale non lo sia. Lo stesso Lego – The movie potrebbe essere visto come un grandissimo spot per vendere i mattoncini.
Su queste cose bisogna ragionare…nel momento in cui il videogioco di Avatar incassa più del film, si può pensare che il film sia stato realizzato per vendere il videogioco? Non è così, ma è lecito domandarselo, e si può pensare che in futuro potrà essere così…
Per esempio io sono convinto che tutto il clamore fatto 4-5 anni fa sul cinema in 3D è stato fatto per vendere la tecnologie home (sia tv che game) legate al 3D. Hanno usato il cinema come macrospot per lanciare il vero business, che era appunto la vendita del 3D legato alla Xbox, alla Nintendo, alla Play Station e ai diversi tipi di tv. E per riuscirci dovevano far in modo che si parlasse molto del 3D, che esistessero testi che in qualche modo attirassero i consumatori ad acquistare tecnologie in grado di leggerli. Cosa meglio del cinema per ottenere queste risultato?
Se pensiamo che in quegli anni Katzemberg andava in giro a dire che nel 2012 tutto il cinema sarebbe stato tridimensionale…oggi invece sempre più gente cerca sale che proiettino in 2D. A questo punto o siamo davanti ad un grandissimo fiasco commerciale o invece si è trattato di una strategia molto ben pianificata. Io propendo più per questa seconda ipotesi.
Comunque su questi aspetti relativi ai paratesti, sul loro rilievo, suggerisco la lettura del numero di Wired Italia dell’ottobre scorso, dedicato alle webtv…in particolare un produttore americano spiega come prepara i trailer per le diverse piattaforme…cinema, tv, youtube ed addirittura vine…dove possono durare pochi secondi, ma arrivano a raccogliere 40 milioni di ‘mi piace’ da persone che poi magari non andranno mai al cinema a vedere il film. È chiaro che in un panorama di questo tipo diventa sempre più difficile distinguere tra marketing e storia, tra testo e paratesto…
Xmp: Ma quanti sono secondo te quelli che di un universo narrativo fruiscono in maniera onnivora? Quanti di Lost non si sono limitati a vedere la serie tv, ma hanno anche giocato al videogioco, partecipato a Lost Experience? Fatti ‘100’ gli spettatori della serie televisiva, quanti hanno fruito del franchise Lost in maniera espansa?
Simone Arcagni: Non penso esistano statistiche di questo tipo, ma la mia sensazione è che la quota di chi fruisce in maniera espansa non sia piccola. Se mi chiedi ‘quanti di quelli che hanno visto Avatar al cinema, hanno poi comprato il videogioco e/o sono stati sul sito Pandorapedia?’…Beh, probabilmente pochi…però se la domanda è ‘Quanti hanno incrociato l’universo Avatar, senza aver visto Avatar al cinema, io ti dico la maggior parte. Un tempo un film potevo vederlo al cinema, magari recuperarlo in una sala di seconda visione, o in Vhs e poi in Dvd. Oggi io posso in qualche modo parlare di Lego The Movie, pur non avendolo visto al cinema, perché mio figlio mi ha fatto vedere due episodi della webserie e il trailer, perché gli amici mi hanno messo su Facebook il teaser, per l’app che mi sono scaricato per giocare a Star Wars Lego. In sintesi io sono entrato in contatto con questo universo narrativo senza aver visto quello che una volta sarebbe stato il prodotto centrale: il film. E come me penso che parecchi di quelli che sono venuti in contatto con molti universi narrativi, nei quali un tempo ci sarebbe stato al centro il cinema, lo hanno fatto in altri modi, su altri canali.
Faccio un altro esempio. Ho un’amica che quando sono a Torino viene da me a vedere X-Factor su Sky…Quando non posso ospitarla, lei sa comunque tutto sulla puntata in corso, tramite Facebook o Twitter. Quindi c’è un’impollinazione del mondo informativo e narrativo che è ormai capillare. Esiste un passaparola digitale che fa si che dei pezzetti arrivino anche a chi non entra in contatto diretto con la dorsale narrativa principale: mio padre non ha mai visto Lost, ma ne sa comunque molto. Una volta questa cosa non era possibile, o lo era in maniera estremamente più limitata. Ma basta pensare a Minecraft. Io non c’ho mai giocato, ma ne conosco l’estetica, ho visto i machinima, andando su youtube si possono vedere tantissimi video fatti da chi ci gioca e dai produttori…è ormai parte della natura di molti prodotti l’espandersi su più piattaforme, in particolare in rete.
Il passaparola digitale è diventato fondamentale, ed anche un produttore monocanale come la Rai, fosse anche per uno sceneggiato in prima serata, non può non tenerne conto. Ed in effetti la Rai ormai lo ha capito e comincia ad agire di conseguenza.
Un esempio molto significativo in questo senso c’è sul libro Social Tv di Andrea Materia e Giampaolo Colletti, che riporta il caso di un talk show statunitense (tipo David Letterman e Jay Leno) che cambiando canale ha perso circa 5 milioni di spettatori, ma si è visto aumentare il contratto sia come tempo che come ingaggio perché ha superato tutti i concorrenti per i ‘mi piace’ su Facebook e per tweet generati non tanto durante la trasmissione, ma dopo, nelle ore e nei giorni successivi. Una trasmissione che quindi, al di là delle due ore di messa in onda, aveva una coda lunga sui social network, con un valore commerciale che è stato ritenuto superiore ai 5 milioni di audience persi nel corso della diretta televisiva. Di fronte a notizie come queste si capisce come lo scenario sia totalmente cambiato. X-Factor multimediale, Santoro in crowdsourcing, non sono più casi isolati…lo stesso Floris fa continuamente riferimento ai tweet.
Io penso che tutto il panorama mediale sia fatto in questo modo, poi alcuni soggetti fruiranno in maniera espansa e social in maniera minima, ed altri, tra i quali mi metto io stesso, all’80%. Ma in ogni caso penso che oggi sia di nicchia chi guarda la tv senza avere nessun altro device. Questo è vero guardando al sistema culturale, sociale e comunicativo nel suo complesso. Mi pare però che siano ancora pochi, all’interno di questo sistema, i singoli prodotti che riescano ad affermarsi con grandi numeri su tutte le piattaforme, con un successo che sia esso stesso espanso. Lost, in questo senso, ha spostato dei numeri, rappresentando un punto di svolta per l’intero sistema dell’intrattenimento. Lo stesso X-Factor Italia, che è esploso dopo che la Rai lo ha lasciato andare, anche grazie ai Social Network, rappresenta un momento di svolta. Quindi se i prodotti sono ancora pochi, il sistema è però, ormai, in grado di accoglierli. La Rai ha stretto accordi con il premio Solinas per sviluppare webseries, la BBC ha una divisione dedicata allo sviluppo di webseries e webdocumentaries, France Television ha un centro di ricerca per le produzioni crossmediali che riceve milioni di euro di finanziamento ogni anno. Quindi, voglio dire, ci siamo…
–
A lunedì prossimo per la terza e ultima parte dell’intervista.
A presto
Cor.P
Filed under: interview | Tagged: avatar, lego the movie, lost, minecraft | 2 Comments »