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Vi segnalo il Workshop sul Transmedia Storytelling che terrò, insieme ad Andrea Nicosia di Webside, il prossimo 8 Maggio, dalle 14.00 alle 18.00 presso l’I-Lab Luiss. La partecipazione al workshop è gratuita, basta registrarsi qui.
Di seguito il programma del Workshop:
Il transmedia storytelling è l’articolazione di un racconto attraverso canali e strumenti differenti, per creare esperienze narrative più coinvolgenti. Il marketing è raccontare una storia.
Vedremo come i principi del transmedia storytelling possano applicarsi alla comunicazione d’impresa per rendere lo storytelling aziendale più efficace e come la narrazione transmediale possa essere sia di supporto all’impresa sia oggetto della stessa impresa.
Transmedia? Crossmedia? Definizioni e campi di intervento
Perché la narrativa funziona
Narrativa transmediale nell’era del content marketing
I ruoli: produttore, art director, sceneggiatore e oltre
Strumenti: quali esistono già e quali possono essere creati
I campi di applicazione della narrativa
Esempi di campagne di transmedia storytelling
Fare impresa con il transmedia storytelling
Progettazione di una operazione di narrativa transmediale
Di seguito il comunicato stampa di presentazione dell’evento:
Provate a realizzare una falsa rapina in banca e fallirete miseramente, non riuscirete a fare una “falsa” rapina perché realtà e finzione si mischieranno in modo irrimediabile. Jean Baudrillard usa questo esempio calzante per descrivere il simulacro: una sorta di sospensione in cui è impossibile distinguere ciò che è vero da ciò che è falso, una condizione nella quale la nostra mente è costantemente e sempre più immersa.
Esistono degli indizi – raccolti attraverso quello che vediamo, annusiamo, ascoltiamo, leggiamo sui giornali, di cui facciamo esperienza sul web – che messi insieme ci fanno immaginare alcune cose piuttosto che altre. Tutti questi indizi si compongono nella nostra mente per formare quello che sappiamo del mondo. Una conoscenza che contiene tanti vuoti che riempiamo tramite un atto performativo, creando un modello mentale delle cose che ci circondano.
Questo è il modo in cui opera il nostro cervello: una modalità che tecnicamente si definisce “transmedialità”. Uno dei problemi più attuali del design è quello di non cogliere appieno tale possibilità, di non attivare modalità performative nelle persone, trascurando la transmedialità propria del nostro cervello. La conferenza si interroga proprio sulla transmedialità e sulle forme di comunicazione avanzata come opportunità per il design, cioè la possibilità di creare non solo un oggetto – un evento, un allestimento… – ma anche di descrivere, inventare, costruire virtualmente il mondo in cui questo oggetto vive. Sempre più world building e transmedialità sono cruciali nel mondo contemporaneo nel quale i media sono ubiqui. Smartphone, tablet, internet, social network, flash mob, etichette interattive, sensori, pubblicità, messaggi: la comunicazione ubiqua, nomade e interstiziale crea continuamente indizi su ciò che è vero, desiderabile, possibile, e che noi utilizziamo per formare i nostri modelli mentali del reale.
Nel corso dell’incontro sarà anche presentata la pubblicazione digitale “Un Simulacro per il Garbage Patch State” realizzata dagli studenti del Master in Exhibit & Public Design A.A. 2013. Un mondo virtuale e verosimile costruito intorno al Garbage Patch State, lo “Stato” fondato a Parigi nella sede dell’Unesco l’11 aprile 2013 dall’artista Maria Cristina Finucci costituito dalle gigantesche 5 isole di rifiuti che vagano negli oceani. La sua prima Festa Nazionale è celebrata con una installazione dell’artista sulla piazza del museo e l’apertura della sua prima Ambasciata a cui gli studenti del Master in Exhibit & Public Design partecipano con la mostra “6 Ambasciate per il Garbage Patch” allestita all’interno del Padiglione Educazione del MAXXI.
Partecipanti: Margherita Guccione – Direttore MAXXI Architettura Cecilia Cecchini – “Sapienza” Università di Roma, Direttore del Master in “Exhibit & Public Design” Salvatore Iaconesi – AOS Art is Open Source, docente, artista, hacker Andrea Natella – Kook Agency, giornalista, esperto di comunicazione anticonvenzionale Corrado Peperoni – “Sapienza” Università di Roma, esperto di narrazioni crossmediali Oriana Persico – AOS Art is Open Source, docente, artista, esperta di comunicazione
Eccoci alla terza parte dell’intervista a Simone Arcagni, che al termine della seconda parte rifletteva su quanto oggi il consumo televisivo tradizionale – confinato al solo piccolo schermo – sia ormai da considerare di nicchia…
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Xmp: Secondo te esiste una via italiana al narrare espanso? Esistono peculiarità, specificità italiane in questo ambito?
Simone Arcagni: Non so se c’è una via italiana, so che ci sono degli esempi italiani, ma nel senso di dove nascono dal punto di vista produttivo. Ma io penso che grazie alla rete ciò che prevarrà sarà la formazione di comunità transnazionali. Cioè sarà più facile che gli amanti della fantascienza creino le loro comunità ed i loro prodotti, in maniera del tutto indipendente dalla provenienza di ciascuno dei membri. In altri termini penso a comunità di interessi, in cui non so quanto possa emergere o svilupparsi una specificità italiana. Comunque nel campo delle webseries e dei webdocumentari non siamo messi male, anzi facciamo molte cose interessanti e vinciamo molti premi internazionali. Io faccio l’esempio delle webseries perché le ritengo, anche quando vivono ‘solo’ in rete, crossmediali ab origine…Se io realizzo gli episodi, li distribuisco su youtube, creo pagine dedicate su Facebook o su Twitter, anche se si tratta di una produzione monocanale – ma youtube lo definirei un transcanale – è pur sempre vero che quel tipo di prodotto nasce proprio per essere sparso, condiviso…la spreadability di cui parla Jenkins. Lo spettatore – commentando, taggando e rilanciando in mille altre maniere – fa muovere quel testo è lo fa navigare da altre parti. Quindi per me una webserie o un webdocumentario sono intrinsecamente transmediali, anche se a volte la loro portata transmediale è limitata dal fatto che ci sono pochi fan.
Xmp: Quindi, se volessimo sintetizzare, la vera peculiarità di questi formati narrativi non è (o fra poco non sarà più) la loro distribuzione su più canali mediali ma la partecipazione, la collettivizzazione, la spreadability…
Simone Arcagni: Secondo me sì, ovviamente con gradi diversi. In un programma come RaiTunes è certamente più presente, ma anche in una webserie come Freaks, che poi diventa un dvd e anche un libro…chiaramente ci sono differenze, ma al contempo è evidente che se realizzo un prodotto per internet, pensandolo da subito immerso nell’ambiente dei social network, la sua caratteristica decisiva diventa proprio la spreadability, il nascere per essere fruito in tempi diversi, con modalità diverse, su device diversi e con un tipo partecipazione, di interazione, diversa…dal minimo del commento al massimo dell’interattività in senso stretto.
Un altro esempio italiano interessante, di tutto altro genere, è Tutto parla di te, film di Alina Marazzi. La produzione del film ha deciso di affiancargli un webdoc crossmediale che partiva dal lungometraggio e ne usciva per andare verso le esperienze che il pubblico decideva di condividere. Si chiamava Tutto parla di voi, ed era creato con un insieme di video postati da persone che raccontano la loro esperienza personale rispetto alla depressione post-partum, argomento centrale del film. Quindi a partire da un lungometraggio cinematografico si crea un web documentario partecipativo, in cui l’elemento social diventa snodo vitale. Non solo. Ad ospitare e a finanziare il documentario è arrivato Il Fatto Quotidiano, cioè un quotidiano che ha bisogno di contenuti, di informazioni, in questo caso legate ad un reportage, un ottimo reportage partecipato. Quindi ci troviamo di fronte ad un lungometraggio cinematografico che, attraverso le estensioni sul web ed il sostegno di una testata giornalistica, diventa un mondo partecipato e partecipante.
Un altro esempio nostrano, ancora molto diverso, è quello di Dylan Dog, di cui Luca Vecchi, Claudio Di Biagio e Matteo Bruno stanno facendo una webseries. La serie nasce dal fatto che ogni volta che l’eroe della Bonelli è stato trasposto al cinema, i risultati sono stati risibili…Vecchi e Di Biagio, ottimi professionisti e fan dichiarati dell’indagatore dell’incubo, hanno perciò deciso di provare a ricrearne in video una versione filologicamente corretta. Per finanziare l’operazione i due lanciano un crowdfunding, in cui si presentano proprio come fan che vogliono rendere giustizia filologica al loro eroe, e che per questo chiedono al pubblico non solo il supporto finanziario, ma anche suggerimenti su cosa non può mancare nella serie…e quindi il crowdfunding diventa anche crowdsourcing, perché le sceneggiature vengono costruite tenendo conto dei suggerimenti di chi partecipa al finanziamento e perché alcuni ruoli tecnici nella troupe verranno coperti proprio da soggetti che si sono autocandidati spontaneamente online.
Xmp: Quindi possiamo dire che in questi contesti si inverte il flusso tradizionale: prima si trova un pubblico disposto a pagare, per un prodotto che verrà realizzato solo ex post…
Simone Arcagni: Sì, in effetti questa serie non l’ha vista nessuno, perché ancora non esiste, ma nei social network, nel passaparola digitale, è come se già esistesse a tutti gli effetti.
Xmp: Scenari di questo tipo offrono nuove e maggiori possibilità agli indipendenti?
Simone Arcagni: Sì sicuramente. A Roma si è da poco tenuto il primo meeting di video maker, produttori e sceneggiatori di webseries. L’obiettivo prioritario è quello di fare gruppo e aumentare la possibilità di espandersi sul mercato: in altri termini rimanere indipendenti, rendendosi però più solidi federandosi.
Xmp: Esistono professionisti italiani che si stanno mettendo in luce in questo ambito?
Simone Arcagni: Diciamo che Riccardo Staglianò e tutta l’academy di Repubblica che si occupa dei web documentari, di prodotti pensati per diventare in parte video, in parte testo, in parte mappa, in parte gallery fotografica e mille altre cose, hanno svolto e stanno svolgendo un ruolo centrale, tentando percorsi che altri in Italia ancora non esplorano.
L’altro nome, che ho già citato, è quello di Mariano Equizzi, ma qui parliamo veramente di nicchia. Ma è il personaggio che più di tutti sta cercando di sperimentare tutte le forme, tutti i modi, tutte le tecnologie che permettono l’apertura del racconto non lineare.
Aggiungerei poi Luca De Biase, un nome che è un po’ fuori da questo contesto audiovisivo ma che è tra i pochi giornalisti italiani che lavora incessantemente da anni per la costruzione di piattaforme convergenti della notizia. È lui che ha avuto l’idea di Nova24 e quella di Nova100, cioè di 100 blog di blogger selezionati, le cui notizie possono confluire nel quotidiano. Ed ora con il Nova cartaceo ha fatto il primo giornale cartaceo aumentato, senza il QrCode. Ci sono alcuni articoli estesi, e poi inquadrando alcune foto con lo smartphone, dopo aver scaricato l’applicazione gratuita, si può accedere a molti contenuti ulteriori, testi, foto, video. Si crea cioè una piattaforma trans narrativa del giornalismo. Lui quindi, a partire da contesto informativo e giornalistico, ha davvero una visione transmediale del modo di generare e far circolare testi.
Nel mondo delle webseries ho già citato Claudio Di Biagio – che era tra i protagonisti di Freaks e collabora con i Manetti Bros – e Luca Vecchi, che aveva anche realizzato The Pills. Secondo me hanno idee interessanti, sanno costruire mondi narrativi e sanno che poi li devono andare a collegare con molte cose diverse. Loro, così come il gruppo che ruota intorno alla TheJackal, rappresentano davvero una nuova generazione di sceneggiatori e video maker, che sanno che non devono costruire ‘il film’, chiuso, monotestuale…ma qualcosa di diverso…
Xmp: Rispetto a quanto riportato da alcuni degli altri intervistati, dipingi un quadro piuttosto vivace, e con prospettive che lasciano ben sperare per il narrare espanso italiano. Quello che sembra carente è il mainstream…perché? Deriva da una carenza di budget e/o di teste adatte a questi nuovi scenari narrativi?
Simone Arcagni: Secondo me le teste ci sono. Il mio lavoro mi porta in contatto con un mondo di persone che pensa le cose in maniera agile, aperta, innovativa…andrebbero probabilmente supportate meglio, non necessariamente in termini di finanziamento, ma di piattaforme, eventi, occasioni che aumentino la possibilità di mettersi in luce; bisognerebbe provare a farli giocare con qualcosa di più costoso, magari facendogli fare qualche fiction tv…più che il soldo in se, sarebbe bello avere un sistema produttivo che avesse voglia di integrare queste teste, offrirgli delle chance… certo offrire delle chance nella maggior parte dei casi significa anche metterci dei soldi, ma non è l’unico elemento. In fondo se queste persone riescono a fare delle webserie viste e premiate in tutto il mondo, facendosele a casa loro con i loro risparmi…vuol dire che riescono a mettere insieme più risorse economiche loro di quanto ne metterebbero Rai e Mediaset? Non lo penso… evidentemente il problema non è (solo) economico. Serve un cambio di politica, di strategia. Prima dello stanziamento dei soldi si deve acquisire la consapevolezza che ‘questo è un settore che ci interessa, un settore che vogliamo vendere ai pubblicitari’…Io comunque sono abbastanza ottimista, forse ho un osservatorio privilegiato ma vedo veramente molte persone in gamba che fanno cose molto belle…
Eccoci alla seconda parte dell’intervista a Simone Arcagni, che aveva concluso la prima parte sottolineando il rilievo della componente artigianale nella ideazione e realizzazione di narrazioni espanse.
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Xmp: Un modo di raccontare che rilancia il filo narrativo da un medium all’altro, è davvero così innovativo come gran parte della retorica sul transmedia storytelling da Jenkins in poi tende a suggerire?
Simone Arcagni: Secondo me no, ma per due diversi motivi che devono essere spiegati.
Il primo è che basta guardare al Novecento…parto da un ricordo personale: Sandokan…da bambino non ne perdevo un episodio. Mia madre mi ha dovuto comprare il gioco in scatola, mia zia l’album delle figurine. C’era poi un giornaletto che usciva ogni mese, non ricordo se allegato a qualche rivista, in cui le avventure di Sandokan erano adattate in forma di fumetto. L’editore Longo di Torino, che aveva i diritti dei romanzi di Sandokan, li ha ristampati tutti con in copertina l’immagine di Kabir Bedy e degli altri protagonisti dello sceneggiato televisivo.
Tutto questo cos’era, convergenza? Sì, fondamentalmente era già la cultura convergente, ed ho fatto un esempio italiano. Se pensiamo alle serie tv o ai film statunitensi e tutto quanto ruotava loro intorno, la tesi che sostengo si rafforza: da questo punto di vista non è stato inventato nulla di nuovo.
Penso però che il digitale e la rete accelerino ed espandano queste caratteristiche.
Secondo me il vero problema è continuare a pensare al sistema del mondo dei media e dello spettacolo in maniera evolutiva e a chiedersi che cos’è originale, cosa c’è stato prima, cosa c’è stato dopo. Il rischio è quello di non comprendere alcune specificità del mondo digitale. Anche per questo penso che, nonostante siano passati ormai parecchi anni, il teorico migliore in questo settore rimanga Lev Manovich, sia con il classico Il linguaggio dei nuovi media, sia con il più recente The Software Culture, in cui sostiene che bisogna studiare i software, la loro storia, quella delle interfaccie, per capire come il computer nasca all’interno di una società e di una cultura e ne prenda modi, modelli, pratiche, memorie ma al contempo, andando avanti, questi modi, modelli, pratiche, li modifichi in maniera sostanziale. Quindi non penso abbia senso dire ‘ah ma questo è un frammento dello 0,5% del cinema classico americano, ah, qui ho notato uno 0,2% di Fassbinder…’. È un lavoro che secondo me rischia di essere inutile.
All’interno dei filmstudies c’è un filone molto interessante, che è quello dell’archeologia dei media, che va a creare delle famiglie filologiche attraverso le storie dei singoli media. È un lavoro fantastico, che però a noi interessa per andare a ritrovare, nel panorama digitale contemporaneo, delle modalità, degli stili, dei linguaggi, delle possibilità critico teoriche, ma non, a mio avviso, un percorso evolutivo. Secondo me, e parlo in generale, la domanda culturale sul quanto in questi nuovi prodotti rimanga del ‘cinema’ è mal posta…voglio dire, ci aiuta a capire meglio a cosa siamo di fronte quando parliamo di un film nato e distribuito su Youtube, ma non può bastare. A me non basta sapere che li c’è una forma linguistica che rimanda al cinema o alla televisione. A me interessa capire che dinamiche si stanno sviluppando, quali pratiche fruitive vengono alla luce, quale design si evidenzia. Design per me, in questo contesto, è la vera parola fondamentale, la parola chiave. Oggi tutto deve essere disegnato, anche per quanto dicevamo prima, creare degli spazi all’interno dei quali io metto contenuti, storie, narrazioni, fili, logiche, flussi, codici…ed un pubblico che possa abitarli. Ritengo che guardare a tutto questo chiedendosi quanto c’è di cinema, quanto c’è di televisione, è una prospettiva molto limitante, lo definirei un errore metodologico…
Xmp: In contesti narrativi di questo tipo, è ancora possibile distinguere il marketing della storia dalla storia vera e propria? Ed ha ancora senso farlo?
Simone Arcagni: Probabilmente no…i paratesti in questo momento sono a tutti gli effetti parte del testo primario. L’ultima edizione di MediaMutations era proprio sulla paratestualità ed è emerso con evidenza come tutto ciò che prima era, appunto, paratesto – il trailer, la pubblicità, il teaser… – in questo sistema diventi parte integrante del testo principale. Un esempio in questo senso oggi è la Lego. La Lego decide di non far la solita pubblicità di alcune sue linee di prodotto (ad esempio quella legata a Star Wars) ma di farne una webserie. Che diventa virale.
E va talmente bene che Lego chiede agli utenti di fare dei loro webisodes, con concorsi e contest vari. Ed anche qui il successo è talmente forte, che la Lego arriva a produrre il lungometraggio cinematografico uscito da poche settimane in Italia.
Il mondo della narrazione Lego StarWars è un’ecosistema, una federazione che comprende tutti questi elementi, ed è difficile dire quale di questi sia pubblicitario, ma anche quale non lo sia. Lo stesso Lego – The movie potrebbe essere visto come un grandissimo spot per vendere i mattoncini.
Su queste cose bisogna ragionare…nel momento in cui il videogioco di Avatar incassa più del film, si può pensare che il film sia stato realizzato per vendere il videogioco? Non è così, ma è lecito domandarselo, e si può pensare che in futuro potrà essere così…
Per esempio io sono convinto che tutto il clamore fatto 4-5 anni fa sul cinema in 3D è stato fatto per vendere la tecnologie home (sia tv che game) legate al 3D. Hanno usato il cinema come macrospot per lanciare il vero business, che era appunto la vendita del 3D legato alla Xbox, alla Nintendo, alla Play Station e ai diversi tipi di tv. E per riuscirci dovevano far in modo che si parlasse molto del 3D, che esistessero testi che in qualche modo attirassero i consumatori ad acquistare tecnologie in grado di leggerli. Cosa meglio del cinema per ottenere queste risultato?
Se pensiamo che in quegli anni Katzemberg andava in giro a dire che nel 2012 tutto il cinema sarebbe stato tridimensionale…oggi invece sempre più gente cerca sale che proiettino in 2D. A questo punto o siamo davanti ad un grandissimo fiasco commerciale o invece si è trattato di una strategia molto ben pianificata. Io propendo più per questa seconda ipotesi.
Comunque su questi aspetti relativi ai paratesti, sul loro rilievo, suggerisco la lettura del numero di Wired Italia dell’ottobre scorso, dedicato alle webtv…in particolare un produttore americano spiega come prepara i trailer per le diverse piattaforme…cinema, tv, youtube ed addirittura vine…dove possono durare pochi secondi, ma arrivano a raccogliere 40 milioni di ‘mi piace’ da persone che poi magari non andranno mai al cinema a vedere il film. È chiaro che in un panorama di questo tipo diventa sempre più difficile distinguere tra marketing e storia, tra testo e paratesto…
Xmp: Ma quanti sono secondo te quelli che di un universo narrativo fruiscono in maniera onnivora? Quanti di Lost non si sono limitati a vedere la serie tv, ma hanno anche giocato al videogioco, partecipato a Lost Experience? Fatti ‘100’ gli spettatori della serie televisiva, quanti hanno fruito del franchise Lost in maniera espansa?
Simone Arcagni: Non penso esistano statistiche di questo tipo, ma la mia sensazione è che la quota di chi fruisce in maniera espansa non sia piccola. Se mi chiedi ‘quanti di quelli che hanno visto Avatar al cinema, hanno poi comprato il videogioco e/o sono stati sul sito Pandorapedia?’…Beh, probabilmente pochi…però se la domanda è ‘Quanti hanno incrociato l’universo Avatar, senza aver visto Avatar al cinema, io ti dico la maggior parte. Un tempo un film potevo vederlo al cinema, magari recuperarlo in una sala di seconda visione, o in Vhs e poi in Dvd. Oggi io posso in qualche modo parlare di Lego The Movie, pur non avendolo visto al cinema, perché mio figlio mi ha fatto vedere due episodi della webserie e il trailer, perché gli amici mi hanno messo su Facebook il teaser, per l’app che mi sono scaricato per giocare a Star Wars Lego. In sintesi io sono entrato in contatto con questo universo narrativo senza aver visto quello che una volta sarebbe stato il prodotto centrale: il film. E come me penso che parecchi di quelli che sono venuti in contatto con molti universi narrativi, nei quali un tempo ci sarebbe stato al centro il cinema, lo hanno fatto in altri modi, su altri canali.
Faccio un altro esempio. Ho un’amica che quando sono a Torino viene da me a vedere X-Factor su Sky…Quando non posso ospitarla, lei sa comunque tutto sulla puntata in corso, tramite Facebook o Twitter. Quindi c’è un’impollinazione del mondo informativo e narrativo che è ormai capillare. Esiste un passaparola digitale che fa si che dei pezzetti arrivino anche a chi non entra in contatto diretto con la dorsale narrativa principale: mio padre non ha mai visto Lost, ma ne sa comunque molto. Una volta questa cosa non era possibile, o lo era in maniera estremamente più limitata. Ma basta pensare a Minecraft. Io non c’ho mai giocato, ma ne conosco l’estetica, ho visto i machinima, andando su youtube si possono vedere tantissimi video fatti da chi ci gioca e dai produttori…è ormai parte della natura di molti prodotti l’espandersi su più piattaforme, in particolare in rete.
Il passaparola digitale è diventato fondamentale, ed anche un produttore monocanale come la Rai, fosse anche per uno sceneggiato in prima serata, non può non tenerne conto. Ed in effetti la Rai ormai lo ha capito e comincia ad agire di conseguenza.
Un esempio molto significativo in questo senso c’è sul libro Social Tv di Andrea Materia e Giampaolo Colletti, che riporta il caso di un talk show statunitense (tipo David Letterman e Jay Leno) che cambiando canale ha perso circa 5 milioni di spettatori, ma si è visto aumentare il contratto sia come tempo che come ingaggio perché ha superato tutti i concorrenti per i ‘mi piace’ su Facebook e per tweet generati non tanto durante la trasmissione, ma dopo, nelle ore e nei giorni successivi. Una trasmissione che quindi, al di là delle due ore di messa in onda, aveva una coda lunga sui social network, con un valore commerciale che è stato ritenuto superiore ai 5 milioni di audience persi nel corso della diretta televisiva. Di fronte a notizie come queste si capisce come lo scenario sia totalmente cambiato. X-Factor multimediale, Santoro in crowdsourcing, non sono più casi isolati…lo stesso Floris fa continuamente riferimento ai tweet.
Io penso che tutto il panorama mediale sia fatto in questo modo, poi alcuni soggetti fruiranno in maniera espansa e social in maniera minima, ed altri, tra i quali mi metto io stesso, all’80%. Ma in ogni caso penso che oggi sia di nicchia chi guarda la tv senza avere nessun altro device. Questo è vero guardando al sistema culturale, sociale e comunicativo nel suo complesso. Mi pare però che siano ancora pochi, all’interno di questo sistema, i singoli prodotti che riescano ad affermarsi con grandi numeri su tutte le piattaforme, con un successo che sia esso stesso espanso.Lost, in questo senso, ha spostato dei numeri, rappresentando un punto di svolta per l’intero sistema dell’intrattenimento. Lo stesso X-Factor Italia, che è esploso dopo che la Rai lo ha lasciato andare, anche grazie ai Social Network, rappresenta un momento di svolta. Quindi se i prodotti sono ancora pochi, il sistema è però, ormai, in grado di accoglierli. La Rai ha stretto accordi con il premio Solinas per sviluppare webseries, la BBC ha una divisione dedicata allo sviluppo di webseries e webdocumentaries, France Television ha un centro di ricerca per le produzioni crossmediali che riceve milioni di euro di finanziamento ogni anno. Quindi, voglio dire, ci siamo…
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A lunedì prossimo per la terza e ultima parte dell’intervista.
A presto
Cor.P
Simone Arcagni è Ricercatore presso l’Università di Palermo. Studioso di nuovi media e nuove tecnologie, collabora con “Nòva – Il Sole24Ore”, “Technonews”, “Oxygen”, “Digicult”, “Segnocinema” e altre riviste scientifiche e di divulgazione scientifica. Suo il blog “Postcinema” ospitato sul sito de “Il Sole 24 Ore”. Co-dirige (con Miriam De Rosa) “Screencity Journal” e dirige “Screencity Review”. Fondatore e coordinatore di “Emerginseries.net-Web Series Magazine”. E’ tra i fondatori di ScreencityLab. E’ curatore, consulente e collaboratore di festival, conferenze, collane editoriali e riviste, nazionali e internazionali. Tra le sue pubblicazioni Screen City (Bulzoni), Music Video (con Alessandro Amaducci), Oltre il cinema. Metropoli e media (Kaplan), DalPostmoderno al post-cinema (curato con Giovanni Spagnoletti); Cinema e web (curato con Giovanni Spagnoletti).
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Xmp: Partiamo dalla terminologia…transmedia, crossmedia, intermedia? Parliamo della stessa cosa o esistono differenze? Non mi pare ci sia particolare chiarezza da questo punto di vista, salvo il fatto che nel tempo il termine Transmedia abbia avuto maggiore fortuna…
Simone Arcagni: Secondo me Andrea Balzola e Anna Maria Monteverdi nel loro le libro Le Arti Multimediali Digitali sono tra i pochi che hanno provato a fare chiarezza da questo punto di vista sono , nella cui introduzione provano a tracciare delle differenze tra crossmediale, transmediale, intermediale, multimediale eccecc, descrivendo dove nascono, dove si collocano e che cosa questi termini dovrebbero descrivere. Quello che ne viene fuori, e questo è anche il mio punto di vista, è che questi termini non sono tanto efficaci per come individuano e descrivono un fenomeno, ma per come permettono di capirsi alle persone coinvolte nel dibattito su questi temi. In altri termini se noi qui, parliamo di storytelling transmediale o crossmediale, non necessariamente stiamo utilizzando il termine più preciso o specifico, ma riusciamo a comunicare, sappiamo di cosa stiamo parlando. E non è un elemento secondario.
A questo aggiungerei che questi termini, per me, sono tutti in certo senso sbagliati, perché danno una centralità ai media che io penso non esserci. Come dice Lev Manovich è veramente difficile pensare a tutto ciò che passa dentro un computer, considerando quest’ultimo come un media. Il computer non è un media, è un grande aggregatore, è un ipermedia, può essere tante cose…ma è difficile porlo accanto ai media come li abbiamo studiati prima. Ulteriore confusione l’abbiamo poi fatta parlando di nuovi media…Per MacLuhan il cinema era un nuovo media. Per noi è invece un old media rispetto al computer ed a tutto ciò che ne è seguito.
Quello terminologico è evidentemente uno snodo problematico, e non ho risposte definitive.
Poi, andando più specificamente su alcune di queste etichette, ritengo che tra crossmedia e multimedia non ci sia una grande differenza. Multimedia è un termine figlio dell’epoca dei floppy-disc ed ancor più dei Cd-Rom e non viene più usato perché percepito come legato a quegli anni…però il concetto che esprime è molto simile a quello espresso dal termine crossmedia, che è più attuale. In generale direi che questi termini non sono specifici…è specifica la maniera in cui vengono utilizzati.
Xmp: Non ti convince il fatto che in questi termini il focus sia sul termine media…forse perchè, e potrebbe sembrare paradossale in un contesto di ubiquità mediale, il protagonista è sempre più il contenuto?
Simone Arcagni: Il protagonista potrebbe essere sempre più il contenuto. Io uso sempre il condizionale in questo momento storico, perché penso che nulla si sia ancora sedimentato. Anche perché rispetto all’epoca dei media più strutturati e istituzionali, come cinema e televisione, è oggi molto più difficile individuare l’istituzione, il produttore, un prodotto specifico, un testo specifico…In questo momento è molto difficile dare delle risposte concrete. Comunque sì, il protagonista sembrerebbe essere il contenuto, ma c’è anche da dire che giornali ed in generale tutti quegli attori che devono comunicare e informare appaiono molto più eccitati dalla tecnologia. Mi sembra di essere ancora in un momento di sbronza tecnologica, in cui tutto ciò che è nuovo è bello ed interessante a prescindere. Detto questo – in una fase in cui tutto si gioca intorno a tecnologia, forme di comunicazione e testo – anche io penso che il testo giocherà un ruolo molto importante. Del resto sempre più spesso quando si vende una tecnologia si vendono anche dei contenuti…l’X-box è il primo esempio che mi viene in mente. Ma, ripeto, siamo ancora nella fase della sbronza tecnologica. Nelle pagine tecnologiche delle testate maggiori viene data importanza a nuove applicazioni e nuovi device di (a dir poco) dubbia utilità, che pure vengono descritti con toni entusiastici. Basta vedere quello che avviene ogni anno al CES di Las Vegas ed al clamore giornalistico che lo accompagna.
E questo accade tanto a livello globale, quanto nel nostro più circoscruitto contesto italiano. Siamo il paese in cui sono state vendute il maggior numero di smart tv…ma poi non vengono collegate!!!! Discorso simile per gli smartphone. Non conosco i dati più aggiornati, ma fino a uno o due anni fa eravamo il paese con il maggiore numero di smartphone per abitante dopo la Corea del Sud…ma venivano utilizzate pochissime delle potenzialità dello strumento.
Xmp: In questo contesto ancora in divenire, ma già molto diverso dal recente passato, come cambia il mestiere di chi racconta per professione?
Simone Arcagni: Secondo me cambia totalmente…il saper raccontare ed il saper scrivere lo do per scontato. Quello che oggi va aggiunto è la consapevolezza che quello che si scrive andrà su device molto diversi fra loro. Chi scrive deve quindi saperne un po’ di tecnologia, ma non per fare il programmatore, ma perché deve sapere che c’è un ecologia di media digitali vasta, ampia, diversificata…deve sapere come passa la scrittura sui social media; come viene letta, guardata, fruita, su uno smartphone; deve sapere cosa significa interattività. Deve essere una figura che sa raccontare storie e che è ben consapevole del panorama mediale in cui stiamo vivendo. E soprattutto deve saper dialogare – in particolare per prodotti che potrebbero o dovrebbero essere mainstream, come serie tv o lungometraggi cinematografici – con il programmatore, con il designer, con chi sviluppa i siti web o le applicazioni. Deve saper parlare molte ‘lingue’.
Quanto al racconto vero e proprio, deve riuscire ad aprirlo. La storia raccontata deve essere prima di tutto un mondo, un universo flessibile, aperto, che si faccia attraversare, che possa essere in una parte (minima oppure molto ampia) manipolabile
Xmp: Potremmo quindi sintetizzare dicendo che in un contesto di questo tipo l’elemento spaziale della narrazione diventa più rilevante di quello temporale? Consentire al pubblico di esplorare l’universo finzionale diventa più rilevante del tempo di fruizione, che diventa un qualcosa di molto personale?
Simone Arcagni: Sì, però solo se detto in questo tuoi termini. Ma in generale no, perché io devo consentire anche una fruizione diacronica, devo garantire anche la possibilità di intervenire sull’aspetto temporale, di giocarci. Quindi un racconto che si amplifichi nello spazio, ma che consenta anche di intervenire sul tempo…
Il compositore di musica elettronica Domenico Sciajino ha realizzato un progetto musicale (impossibile chiamarlo album) in cui il fruitore ha la possibilità di ricombinare le singole tracce, di aumentare la ritmica, togliere delle sezioni musicali, aggiungerne altre, riscriverlo dando però i creative commons al creatore originale della musica. In essenza Domenico a creato una struttura temporale dando al pubblico la possibilità di rimaneggiarla a piacere. Qualcosa di simile deve essere consentito anche riguardo alla dimensione temporale delle narrazioni, e quindi in questa prospettiva non direi che lo spazio ha più rilievo del tempo. Di entrambe deve essere garantita la esplorabilità e la manipolabilità (come detto in misura più o meno ampia).
Xmp: Nell’affermazione di questi formati narrativi che riconoscono un ruolo così attivo al pubblico, mettendolo in gioco in prima persona, quanto conta la sempre maggiore rilevanza del medium videoludico?
Simone Arcagni: Secondo me è centrale, ed un ruolo sempre più rilevante in questa ibridazione tra prodotti più propriamente narrativi e prodotti videoludici lo svolgeranno le app. Faccio solo alcuni esempi…forse il web documentario più bello che è stato prodotto è Prison Valley, che è un reportage su una zona degli Stati Uniti dove si concentrano una serie di prigioni e dove tutta l’economia gira intorno alle carceri. Per guardare questo documentario bisogna iscriversi tramite Facebook, e poi si entra in prima persona negli hotel di quella zona, si può cliccare sulla radio e sentire la vera radio che si ascolta in quelle zone, si può decidere di prendere la macchina ed andare in carcere ad intervistare qualcuno dei detenuti o il direttore stesso. Cioè la struttura del documentario è stata approntata, plasmata per un uso da game. E Prison Valley ha vinto premi in tutti i festival del mondo.
Trovo assolutamente riuscita anche la App di Walking Dead, spin-off della famosa serie TV, che alterna fasi in cui si assiste a sequenze forse assimilabili ad una webseries ad altre in cui si è chiamati ad attivarsi, ad esempio uccidendo degli zombie, per poter avanzare ancora, vedere altri video ed avere un’idea più completa di alcune vicende della famiglia non narrate negli episodi televisivi. C’è un bisogno di (inter)attività, di partecipazione, che il web 2.0, con i social network, ha portato all’attenzione e nella disponibilità del grande pubblico, e che in contesti narrativi viene concretamente attuata con l’introduzione di elementi di gioco. Se lo spazio narrativo, come dicevamo prima, diventa così importante, il game diventa il modo più immediato per permettere al pubblico di entrarci dentro ed esplorarlo.
Xmp: Accanto ai videogiochi un ruolo fondamentale nella diffusione delle narrazioni espanse lo hanno avuto i Social network…
Simone Arcagni: I social network secondo me hanno impresso ed hanno imposto delle parole chiave, che sono partecipazione, interattività, comunicazione…e questo più che dai singoli social network è stato generato dalla struttura culturale dei social network che hanno in qualche modo definito la fase del web 2.0.
La strada segnata culturalmente da internet è stata proprio questa…a partire dal web 1.0 dei motori di ricerca, un faro per navigare nell’oceano delle informazioni di internet, siamo passati agli aggregati di comunità, di contatti, di amici, di persone, che ti aiutano a creare un tuo percorso all’interno dei contenuti, un percorso che diventa bidirezionale: non solo ‘alla ricerca di’, ma anche ‘per costruire’ qualcosa da rimettere in circolo. È la fase del web 2.0, quella in cui social network hanno proprio impresso un modo di essere di internet, un modo di viverlo e di parteciparlo.
Oggi il mondo secondo me più interessante, quello su cui si giocherà molto nel futuro prossimo, è quello delle app. E del resto molte app sono social network…
Xmp: Esistono tecniche e strumenti specifici (bibbie transmediali, applicativi ad hoc?) per scrivere questo tipo di prodotti transmediali, queste narrazioni espanse?
Simone Arcagni: Si ci sono applicativi, ci sono software. Per esempio per tutta la parte relativa al racconto crossmediale, ad un racconto aperto e possibilmente partecipativo, il più usato è Klynt, soprattutto per i web documentari crossmediali. Lo usa ad esempio Repubblica.it. Poi c’è Zeega, che è open. Poi c’è Korsakow. Ed ancora Interlude e ConditionOne che permette soprattutto la costruzione di racconti interattivi audiovisivi. Senza contare che esistono anche dei modelli di motori di ricerca che consentono di fare delle ricerche e poi, con i risultati ottenuti, costruire un modello non lineare. Io per esempio uso PearlTrees. Il risultato è, a livello visivo, una sorta di Dna delle ricerche effettuate, in cui i risultati più interessanti non vengono salvati tra i preferiti o scaricati, ma diventano parti, snodi di questo albero, che evidenzia i collegamenti ed i percorsi che ho seguito nel corso della mia ricerca, in qualche modo narrativizzandoli.
Xmp: È interessante il fatto che tu, da giornalista, mi abbia citato tutta una serie di software dedicati, mentre alcuni degli intervistati che effettivamente realizzano prodotti trans o crossmediali (penso ad esempio a Davide Tosco e Marco Zamarato), mi hanno descritto una lavorazione molto artigianale, fatta di appunti, di post-it, di scrittura intesa nel senso più tradizionale del termine…
Simone Arcagni: Secondo me c’è un motivo: la cosa bella di questo mondo, che non so come chiamare…diciamo di questo mondo del digitale avanzato, è che si torna molto ad una fase artigianale, e non è affatto negativo. Rispetto alla creazione di questo tipo di narrazioni, probabilmente, piuttosto che prendere dei prodotti precofenzionati, seppure open, preferiscono farsene loro, di ibridi, partendo magari dalla parete piena di post-it per poi arrivare a farsi un loro applicativo. Certo però che il ragazzino che vuole provare a buttar giù qualcosa di interattivo, va su ConditionOne o Korsakow e si trova un tutorial che per le prime esperienze lo agevola molto. Comunque Klynt lo utilizza ad esempio Riccardo Staglianò di Repubblica, certo poi lo integra, lo modifica, lo declina secondo le sue esigenze. Cito anche Mariano Equizzi, un regista italiano che ora vive a Sofia, che ha spaziato da video cyberPunk negli anni novanta, ad un lungometraggio horror girato in Spagna, arrivando al live cinema, al projection cinema, al videomapping, sperimentando continuamente nuovi linguaggi. Ha ad esempio girato un film in realtà aumentata, 28, geolocalizzato a Torino. Per ottenere questo risultato ha utilizzato la piattaforma di Aurasma, che ti permette di geolocalizzare sequenze, infografiche, infosculture e poi connetterle tra loro. Adesso sta sperimentando Zeega o ConditionOne per girare un documentario interattivo: parte solitamente da queste piattaforme per poi adattarle alle proprie esigenze espressive.
Detto questo, io penso che l’artigianalità sia insita nel mondo dei maker digitali… lo sviluppatore che vuole fare il suo codice e il maker che vuole usare la sua stampante in 3d sono accomunati da questa spinta al DIY (do it yourself) che fa sempre più emergere questa componente artigianale nel mondo digitale. Ed io penso che questo elemento non sia di passaggio, ma sia ontologicamente parte dell’epoca digitale.
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A lunedì prossimo per la seconda parte dell’intervista a Simone Arcagni.
A presto.
Cor.P