Mi ero già occupato della trasposizione cinematografica di The Hunger Games, dopo l’uscita del primo film. Ne avevo parlato in termini di adattamento transmediale, perchè la storia raccontata al cinema era la stessa già presente nel primo libro della saga della Collins e quindi, in questi termini, si sarebbe trattato di ‘semplice’ adattamento. Ma in realtà nel passaggio dal libro al cinema, il narrare diveniva espanso. Non si passava cioè dalla narrazione monomediale del libro, ad una, altrettanto monomediale, del cinema: accanto al lungometraggio cinematografico erano stati realizzati infatti una serie di contenuti e di spazi (per la descrizione dei quali vi rimando ai tre post dedicati al primo film), soprattutto online, che hanno espanso la narrazione primaria. Per questi motivi era più completo e corretto parlare di adattamento transmediale.
E lo stesso di può dire per The Hunger Games, Catching Fire (The Hunger Games, la ragazza di fuoco), il secondo film tratto dall’universo finzionale creato da Suzanne Collins, uscito da pochi giorni.
Anche in questo caso il lancio del lungometraggio è stato preceduto da una ponderosa campagna di comunicazione transmediale, di cui vale la pena tratteggiare alcuni dei contenuti principali.
La campagna è iniziata nei primi mesi del 2013, con la cartellonistica relativa a Capitol Couture, ed al nuovo profumo Cinna, apparsa in alcuni delle maggiori città statunitensi.
Questo è bastato ai fan di THG per capire che iniziava il percorso di avvicinamento a Catching Fire. Per il pubblico meno coinvolto nel franchise ma incuriosito da questi cartelloni, è invece stato sufficiente inserire nei principali motori di ricerca ‘Capitol Couture’, per ritrovarsi nell’omonimo sito ospitato dalla piattaforma tumblr. Capitol Couture esisteva già, sulla medesima piattaforma, al momento del lancio del primo lungometraggio, nel 2012. Ma era infinitamente più semplice della versione attuale, sia in termini di struttura (poco più di un blog), sia in termini di quantità, qualità e articolazione dei contenuti e loro interconnessione con l’universo di THG. Oggi Capitol Couture appare come un vero e proprio fashion magazine – scritto per i cittadini di Capitol – nel quale accanto ad articoli sui victors (vincitori di edizioni precedenti degli Hunger Games, che per questo vivono in condizioni privilegiate e possono essere mentori dei tributi del loro distretto designati per le edizioni successive dei giochi) o su eventi mondani della capitale di Panem, ci sono i tipici servizi di moda o quelli relativi al make-up, presenti nelle riviste di questo tipo.
Come avevo scritto nei post dedicati al lancio del primo film con riferimento alle pagine facebook dei dodici distretti, anche in questo caso non ci sono grandi novità in termini di avanzamento di quanto raccontato nel franchise THG, ma c’è sicuramente un ottimo, affascinante lavoro in termini di occasioni date ai fan per immergersi nel mondo di Panem, facendo loro conoscere, respirare, sperimentare, lo stile di vita dei suoi cittadini, fatto di lusso sfarzoso ed opulenza, come già sa chi ha letto i libri della Collins.
Perchè tutto questo acquisisca maggiore efficacia (che in questo contesto significa fondamentalmente maggiore capacità di coinvolgimento) i confini tra realtà è finzione vengono ripetutamente attraversati, sfumati, confusi. Capitol Couture è un fake fashion magazine…ma considerando l’articolazione, la quantità e spesso la qualità dei contenuti, in alcuni passaggi risulta interessante come fosse vero. Del resto nel magazine scrivono anche firme già note, giornalisti affermati come Monica Corcoran Harel che ha prestato la sua opera a testate come New York Times, Elle, Marie Claire o come la fashion blogger Rose Apodaca, già giornalista per Harper’s Bazaar e Elle. Nella sezione capitol look vengono dedicati articoli a fashion designers che tali sono davvero, come ad esempio la spagnola Alba Prat o l’olandese Anouk Wipprecht, o a make- up artist di fama internazionale come Mao Geping. A questi si affiancano altri designer, essi stessi esistenti, che hanno effettivamente contribuito al disegno dei costumi del film, ma che sulle pagine di Capitol Couture vengono presentati come fossero loro stessi cittadini di Capitol, come avviene ad esempio per Daniel Vi Le. L’ibridazione di realtà e finzione si ritrova anche in passaggi più sottili dei singoli articoli che però, per la loro numerosità e per la loro oculata disposizione, sono essi stessi utilissimi a rendere Capitol Couture, e ciò che vi si racconta, ‘vero’.
Così ad esempio nel pezzo si cronaca mondana sul party che il presidente Snow ha dato in onore dei Victors, la giornalista Corcoran Harel viene citata tra gli ospiti…quindi non solo scrive per Capitol Couture, ma è parte integrante di quella realtà che con i suoi articoli descrive. E nello stesso articolo, parlando degli abiti degli ospiti più prestigiosi, vengono citati numerosi veri stilisti: Thierry Mugler, Yves Saint Laurent, Alexander McQueen…
Stessa logica soggiace all’intervista al presidente Snow, che attraverso le pagine del magazine più diffuso, chiama i cittadini di Panem ad una partecipazione massiccia ai settacinquesimi Hunger Games:
I know every citizen reads Capitol Couture, so let this interview be my call to the people of Panem,” he says, standing up for a moment with his hand at his heart. “Are you preparing for the Quarter Quell? It’s part of our civic duty to participate and show your loyalty.
Ci immergiamo nel mondo di Panem, perchè leggiamo la rivista che leggono i cattadini di Capitol…
Capital Couture è interessante perchè chiarisce come l’espansione transmediale di un tessuto narrativo possa essere realizzata in maniera efficace anche non toccando direttamente, se non in maniera marginale, la storyline, perchè in estrema sintesi Capitol Couture non amplia la storia di THG ma approfondisce il mondo in cui quella stessa storia è ambientata. Inoltre dimostra come l’engagement del pubblico, la sua immersione nell’universo finzionale, non necessariamente debba essere perseguita attraverso avveniristiche, estremamente complesse, soluzioni interattive (arg, augmented reality, location based games…), perchè l’attività che, attraverso Capitol Couture, immerge un po’ di più il fan nel mondo di Panem è, semplicemente, la lettura…Ed è quindi agevole, a complemento, comprendere come la scrittura continui a rivestire un ruolo centrale anche nella costruzione di universi finzionali così complessi, dando un contributo irrinunciabile alla solidità delle fondamenta degli stessi.
Quello di Capitol Couture è inoltre l’ennesimo esempio di come sempre più spesso, in franchise transmediali, sia praticamente impossibile distinguere il materiale promozionale sulla storia, dalla storia vera e propria…
In questo caso però esistono delle specificità sulle quali vale la pena soffermarsi, derivanti proprio dal tipo di storia che Suzanne Collins ha raccontato. Quello immaginato dall’autrice statunitense è un futuro distopico, in cui la dittatura, l’ingiustizia sociale, la segregazione, sono la regola. Un futuro in cui adolescenti sono posti l’uno contro l’altro, in survival games in cui sono chiamati ad uccidersi tra loro. Associare a un franchise che affronta questo tipo di tematiche un magazine come Capitol Couture, che celebra l’immagine ultracool, patinatissima, del mondo di Panem – raffigurandone il bello, almeno secondo i canoni estetici di Capitol City – è un’operazione che suscita qualche interrogativo. Al di là di eventuali considerazioni etiche, va valutato con attenzione se contenuti promozionali di questo tipo siano coerenti con l’anima del prodotto a cui si riferiscono…o se non rischino invece di tradirla, inflazionando il franchise nel suo insieme.
Per alcuni l’utilizzo di personaggi (stilisti, designer, giornalisti) provenienti dal mondo reale, di marchi celebri che affollano le vetrine delle nostre vie più prestigiose, dovrebbe dimostrare quanto il mondo di Panem sia vicino alla nostra realtà quotidiana, dove, come avviene a Capitol, l’opulenza, lo sfarzo, il lusso esibito, convivono con la povertà, la deprivazione, la morte. Tra le righe di Capitol Couture ci sarebbe quindi l’intenzione di fare della critica sociale. Ad esempio secondo Christine Weitbrecht gli articoli che vi compaiono:
are showing us how close we are already to this particular opulent lifestyle. One way of doing this is the inclusion of luxury brands and designers, that a large part of our own society lusts after, and another is the style and tone of the Capitol Couture articles, which we will all recognize from the type of magazine articles that fill our real-life magazines everyday fans (and probably everyone who’s seen the first movie) can quickly spot the way in which the Capitol and Capitol Couture gloss over anything that could be remotely critical of the status quo, even in the media listed above, and with this type of content directly juxtaposed with real-life examples of media and lifestyle, the criticism behind THG becomes all the more powerful.
Da parte mia nutro dei seri dubbi che questo tipo di critica venga recepita dal target di riferimento del franchise. E del resto se questo fosse stato lo scopo, probabilmente i marchi che abbiamo citato, ed i molti altri che ricorrono nelle pagine di Capitol Couture, non si sarebbero resi disponibili per un’operazione di questo tipo, che avrebbe gettato discredito su di loro, in quanto associati all’idea di un regime totalitario e alla sinistra immagine del Presidente Snow. Ma, come la stessa Weitbrecht sottolinea, questo non avviene:
Interestingly, the negative image of the Capitol doesn’t seem to impact on the brands negatively. Given the social critique of modern day opulence the Capitol embodies, one would think that no brands – luxury or otherwise – would want to be associated with the Capitol, and that fans would look at the featured high-end brands as associates of the evil President Snow and Capitol society. However, judging from the comments and popularity of Capitol Couture, fans don’t seem to think that way.
A mio avviso, appunto, l’immagine negativa di Capitol non impatta altrettanto negativamente su marchi e personaggi che vengono citati nelle pagine di Capitol Couture, perchè se nel magazine esistono intenti critici nei confronti del regime totalitario di Panem, sono nascosti benissimo…
La stessa Suzanne Collins ha sottolineato – in alcune sue dichiarazioni a Variety – come la campagna di lancio del film riecheggi, in un gioco di rimandi metatestuali, le stesse strategie della propaganda degli hunger games che il regime di Panem mette in atto:
I’m thrilled with the work Tim Palen and his marketing team have done on the film. […] It’s appropriately disturbing and thought-provoking how the campaign promotes ‘Catching Fire’ while simultaneously promoting the Capitol’s punitive forms of entertainment. The stunning image of Katniss in her wedding dress that we use to sell tickets is just the kind of thing the Capitol would use to rev up its audience for the Quarter Quell (the name of the games in “Catching Fire”). That dualistic approach is very much in keeping with the books.
Ma ciò che pone dei dubbi è proprio quella che secondo la Collins è la caratteristica della campagna di marketing di Catching Fire che più riecheggia il modo di comunicare del regime di Panem: la campagnia promuove il film e, nel farlo, promuove anche l’intrattenimento violento degli Hunger Games. Dell’afflato critico non v’è traccia, e del resto, da questo punto di vista, non mancano scivoloni. Penso ad esempio alla linea di make up della Covergirl legata al film.
Dodici diversi make up, uno per ciascuno dei distretti di Panem, dai quali per ogni edizione dei giochi due tributi, due adolescenti, sono mandati a morte quasi certa (visto che sopravviverà solo il vincitore, uno su 24 partecipanti). Associare il brand THG ad una serie di cosmetici non stona un po’ con il messaggio dei libri della Collins?
Se all’uscita del film V per Vendetta fosse stata lanciata una linea di prodotti per rendere i capelli lisci, lucidi e mori come quelli del protagonista? Sarebbe stata una gran mossa?
Alla settimana prossima per la seconda parte.
A presto.
Cor.P
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